Q U A D E R N I     L E T T E R A R I

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Collana Antologia

Melinda Tamás-Tarr Bonani

LE VOCI MAGIARE

 

Traduzioni delle opere letterarie ungheresi

 

EDIZIONE O.L.F.A. 2001

F E R R A R A

 

Le liriche qui riportate sono state - salvo la poesia di János Arany e la fiaba lirica di Sándor Petőfi - pubblicate nella rivista «Osservatorio Letterario - Ferrara e l'Altrove - di Ferrara, nella rubrica intitolata «Tradurre - Tradire - Interpretare - Tramandare» in cui vengono pubblicate poesie in più lingue accompagnate dalla traduzione italiana. Le opere narrative invece sono state ospitate nelle rubriche di «Racconti», «Diario di lettura & Presentazioni», «L'eco e riflessione ossia Forum Auctoris». Raccogliendole in questo volumetto si offre un piccolo 'boquet' della letteratura ungherese a partire dai tempi medievali fino ai giorni d'oggi (XII-XXI sec.).

Questa piccola antologia è stata curata dal Direttore Editoriale/Editore dell' «Osservatorio Letterario - Ferrara e l'Altrove» - è un ponte culturale tra l'Italia ed Ungheria -, dalla Prof.ssa Melinda Tamás-Tarr Bonani.


La Professoressa ha ottenuto recentemente ancora due significativi riconoscimenti: il
25 marzo 2001 nel corso della rubrica radiofonica di economia, politica e cultura della Mittel Europa di Radio Rai 1 «Est Ovest», trasmessa dalla sede Rai di Trento a cura di Sergio Tazzer, è stata divulgata la seguente notizia sull'attività della testata da lei fondata ed edita: «...La rivista ha contatti diretti e scambi reciproci con la Biblioteca Nazionale "Széchenyi" di Budapest e la Biblioteca Elettronica Ungherese e si occupa di letteratura (poesia, prosa, storia letteraria) principalmente, ma tratta anche di saggistica storica e filosofica. È attenta a valorizzare soprattutto e a divulgare la storia letteraria, artistica e culturale dell'Ungheria anche ricordando gli stretti rapporti da sempre intercorsi tra questa Nazione e l'Italia, e con Ferrara in particolare, fin dal Rinascimento.» L'altro riconoscimento internazionale (23 marzo 2001) viene dall'International Biographical Centre di Cambridge meritato per la sua poliedrica cultura e per la sua attività incessante: l'inclusione tra i 2000 maggiori pensatori ed eruditi del 21° secolo nell'enciclopedia biografica internazionale più grande del mondo «2000 OUTSTANDING SCHOLARS OF THE 21ST CENTURY» («2000 maggiori pensatori ed eccellenti eruditi del XXI secolo»).

Featuring the 2000 Outstanding Scholars of the 21 st Century Awards Programme


PREFAZIONE

Le liriche qui riportate - salvo la poesia di János Arany e la fiaba lirica di Sándor Petőfi- sono state pubblicate nella rivista «Osservatorio Letterario - Ferrara e l'Altrove - di Ferrara, nella rubrica intitolata «Tradurre - Tradire - Interpretare - Tramandare» in cui vengono pubblicate poesie in più lingue accompagnate dalla traduzione italiana. Le opere narrative invece sono state ospitate nelle rubriche di «Racconti», «Diario di lettura & Presentazioni», «L'eco e riflessione ossia Forum Auctoris».

La rubrica della traduzione nel numero sperimentale (N. 1 Dicembre/Gennaio 1997/98) così è stata inaugurata:

«Nasce da questo numero una nuova rubrica dedicata a quella che si può ben definire un'arte, anche se delle più misconosciute, quella del Traduttore.

Non a caso il 'calembour', che, con una inadeguata e sicuramente più dissonante traduzione della parola francese, si può descrivere in lingua italiana come 'gioco di parola/e', del titolo: il concetto di Traduzione ne raccoglie altri, chiarissimi e sommamente ambigui, ad un tempo; è una linea di confine, un rito di passaggio, di crescita, di trasformazione; si passa da un pensiero ad un altro espresso in modo differente; si passa da una civiltà ad un'altra, nello spazio di una riga o due o, addirittura, di una parola o due.

Facile, facilissimo sbagliare, 'prendere abbagli', 'tradire': ecco dunque la necessità di 'interpretare' - e come si potrebbe fare, altrimenti! Ecco, dunque l'esigenza (e l'obbligo) di cercare di entrare con il massimo della conoscenza, della preparazione, fin dove si può, della disponibilità e, soprattutto, della umiltà, in quel paese straniero che è la Traduzione: da una lingua ad un'altra, da un dialetto ad un altro, da una lingua ad un dialetto e viceversa.

L'adeguamento, l'adattamento da un modo di scrivere ad un altro potrà divenire così una qualcosa da Tramandare, un rapporto interpersonale tra diverse civiltà, le più varie e tra i diversi individui, da trasmettere alle generazioni anche future, ma non solo, fedeli ad un concetto di rispetto, di coerenza, di convivenza, ma non di 'omologazione', uno dei peggiori mali del mondo contemporaneo...» [MARIA CRISTINA NASCOSI]

Da questo numero dell'«Osservatorio Letterario - Ferrara e l'Altrove» in questa rubrica si continua il discorso affascinante della traduzione della quale nella letteratura esistono varie teorie. Ciascun traduttore ha il suo punto di vista che può essere pro o contro ad una certa idea del tradurre.

Ora colgo l'occasione di fare una riflessione parziale sulla questione della traduzione, accennando alcune considerazioni tra le tante altre:

Il problema della traduzione è molto complesso ed è un'arte niente facile.

Ad esempio, un traduttore - si legge nel libro «La traduzione: Problemi e metodi» del professor Peter Newmark del Polytechnic of Central London - deve essere esperto di critica testuale letteraria e non letteraria per poter valutare la qualità di un testo prima di decidere come interpretarlo e quindi come tradurlo. Un'altra opinione afferma che un traduttore deve rispettare scrupolosamente un modo di scrivere elegante, rispettando la lingua, le strutture e il contenuto in essa presenti, sia che si tratti di un brano scientifico che poetico, filosofico o narrativo. Se il linguaggio è scadente, il dovere del traduttore è di migliorarlo, sia che si tratti di un testo tecnico che di un best-seller commerciale, scritto meccanicamente. Ci sono altre persone che sostengono che il traduttore dovrà essere anche un buon giudice del modo di scrivere, non deve valutare solo la qualità letteraria ma anche la serietà morale del testo.

Vorrei anche attirare l'attenzione verso l'eterno problema 'traduttore-traditore': si sa che traducendo un'opera da una lingua all'altra si corre sempre il pericolo di lasciare una notevole parte del significato che l'autore voleva dare effettivamente al suo lavoro nel testo originale. Questo rischio è già presente nel caso della traduzione delle opere narrative e la possibilità di 'tradire' è maggiore in caso delle opere liriche. Solo raramente, e soprattutto se il testo originale viene tradotto da un poeta, è possibile che l'opera conservi il colore ed il sapore sui propri, fin dall'inizio. Basta citare l'esempio di Edgar Allan Poe che tradusse in lingua francese i testi poetici di Charles Baudlaire e di René Char.

In ogni modo non è indifferente il fatto che il traduttore deve conoscere la lingua straniera in modo approfondito, da cui traduce, per poter essere in grado di valutare fino a che punto il testo si discosti dalla norma linguistica solitamente adottata per un argomento in una certa situazione. Deve determinare il grado di originalità grammaticale e semantica del testo, che deve essere mantenuta nel caso di un testo 'espressivo' ben scritto, ma che si può decidere di normalizzare in un testo 'informativo' o 'vocativo' mal scritto. Ha inoltre bisogno di una notevole tensione creativa fra la fantasia e il senso comune. Il traduttore deve acquisire la tecnica per muoversi con facilità fra i due procedimenti fondamentali: la comprensione, che può richiedere un'interpretazione, e la formulazione,, che può richiedere una ricreazione.

Goethe (1813) ha dichiarato che la traduzione è impossibile, essenziale e importante. Le parole di tutte le lingue si sovrappongono e lasciano aperte delle lacune semantiche: vi sono parti di una mano o di una nuvola che non hanno nome e che forse non possono averlo. Benjamin (1923) ha affermato che la traduzione non si limita ad arricchire col proprio contributo la lingua e la cultura di un paese, a rinnovare e arricchire il testo originale, a esprimere e analizzare i rapporti segreti delle lingue fra di loro, ma diventa anche una via d'accesso a una lingua universale. Le parole che secondo la saggezza comune sono tipiche del carattere nazionale potrebbero forse colmare le lacune nell'esperienza generale e universale, che tuttavia non potranno mai scomparire...

La traduzione poetica - come afferma anche il professor Newmark - è veramente spesso più difficile di qualsiasi altro tipo di traduzione perché la poesia è l'unica forma letteraria che faccia uso di tutte le risorse del linguaggio ed è quindi necessario prendere in considerazione un maggior numero di livello del linguaggio.

La traduzione è da un duplice punto di vista un utilissimo esercizio di creatività letteraria. Consente di esaminare da vicino e dall'interno i segreti meccanismi di un testo, sia quello narrativo o poetico. Tradurre significa anche scegliere il modo più efficace per trasferire in un'altra lingua oltre al significato il ritmo, i suoni, il fascino di un brano letterario. Per tradurre però occorre leggere e capire il testo originale, e capire significa penetrare in profondità non soltanto nel significato delle parole, ma anche nello stile dell'autore.

Un testo da tradurre è come una particella in un campo elettrico; attratta dalle forze contrastanti delle due culture e delle norme delle due lingue, delle idiosincrasie di un autore - che può infrangere le norme della sua lingua - e delle aspettative dei lettori, dei pregiudizi del traduttore ed eventualmente anche dell'editore. Il testo inoltre è alla mercé del traduttore che può essere carente in alcuni requisiti fondamentali: accuratezza, competenza, elasticità, eleganza e sensibilità nell'uso della propria lingua, doti che possono, d'altra parte, compensare lacune sotto altri due aspetti: conoscenza dell'argomento trattato nel testo e conoscenza della lingua di partenza.

Il primo compito del traduttore è capire il testo, spesso analizzarlo e per lo meno evidenziare degli aspetti generali, prima di scegliere un metodo traduttivo adeguato. Quindi egli deve tener presente tutta l'opera e l'intenzione dell'autore. Durante la traduzione la traduzione non è minore neanche l'importanza dell'intenzione del traduttore che debba mirare e garantire che la traduzione abbia la stessa carica persuasiva ed emotiva dell'originale ed influenzi il lettore nello stesso modo.

Per aggiungere al discorso della traduzione di questo testo naturalmente non completo, ma è soltanto un breve assaggio del problema della traduzione citerei le parole del grande poeta ungherese Dezső Kosztolányi di traduzione mia che scrisse nell'«ABC su tradurre e tradire»: «...La confusione babelica delle lingua. Sulla terra di Senaar la gente cominciò a costruire la torre di Babele, con l'idea presuntuosa che la punta toccasse il cielo e loro passeggiassero a zonzo, comodamente, da una stella all'altra. Il Signore trovò eccessiva questa presunzione. Fece discendere nebbia sulla loro mente,, confuse la loro lingua. Non si comprendevano più... Ci fu un grosso deficit. L'imprenditore fallì, si dichiarò insolvibile, la torre stava eretta tronca verso il cielo coi suoi muri deserti. Ma ai suoi lati si crearono subito scuole di lingua ed uffici di traduzione. I docenti che apprendevano presto tutte le lingue scrivevano grammatiche, e gli interpreti - con i loro vezzosi berretti in capo - per una buona ricompensa intrapresero avvicinare tutti quelli infelici mortali l'uno con l'altro. In quel momento nacque il traduttore letterario...» Si conferma l'affermazione di Edith «Bruck che la traduzione sia un enorme lavoro e non si può farla fretta. La traduzione è una cosa bella e molto seria e quando uno lo fa, la deve fare bene con molto impegno. Bisogna dare tutto di sé. Il poeta che traduce un altro poeta, si appropria della poesia, la vive...»

Il poeta latino Ennio sosteneva di avere tre cuori, tante quante erano le lingue che parlava: l'osco, il greco e il latino. Ed aveva ragione: ogni lingua infatti, lungi dall'essere soltanto un efficientissimo sistema di comunicazione, è una filosofia, un modo di pensare, di concepire e, secondo alcuni, addirittura di creare il mondo. La lingua è il deposito più profondo di una civiltà; è quanto di più autenticamente proprio e durevole questa va lentamente depositando e conservando nell'intimo della sua storia. [FABRIZIO GALVAGNI: PIÖ 'N LÀ - Rime, versi liberi e traduzioni in dialetto bresciano, Editrice La Rosa, 1994, Brescia, pp.156, s.p.]. A questo aggiungiamo un proverbio/detto ungherese: «Tante lingue conosci/parli tante persone sei». In ungherese: «Ahány nyelvet tudsz/beszélsz, annyi ember vagy»). Per parlare una lingua è necessario diventare un'altra persona: si può, infatti, conoscere veramente una lingua se si impara a pensare come la gente che la parla. Ogni lingua è lo specchio della vita, della cultura di un popolo, quindi della civiltà di un gruppo etnico, di una nazione intera. Ed ora eccovi le liriche ed alcune prose ungheresi che - salvo le liriche citate all'inizio - sono state finora pubblicate nell'Osservatorio Letterario - Ferrara e l'Altrove» a partire dal N.0 Ottobre/Novembre 1997 la quale è un ponte culturale tra l'Italia ed Ungheria di cui domenica 25 marzo 2001 nel corso della rubrica radiofonica di economia, politica e cultura della Mittel Europa di Radio Rai 1 «Est Ovest», trasmessa dalla sede Rai di Trento a cura di Sergio Tazzer, è stata divulgata la seguente informazione sull'attività della testata: «Da ormai tre anni viene stampato a Ferrara un periodico bimestrale di cultura: l' "Osservatorio Letterario" a cura dell'associazione no-profit O.L.F.A. («Osservatorio Letterario Ferrara e l'Altrove») per iniziativa della Professoressa Melinda Tamás-Tarr Bonani - d'origine ungherese, in Italia da poco più di 10 anni - quale direttore, titolare ed editore. La rivista ha contatti diretti e scambi reciproci con la Biblioteca Nazionale «Széchenyi» di Budapest e la Biblioteca Elettronica Ungherese e si occupa di letteratura (poesia, prosa, storia letteraria) principalmente, ma tratta anche di saggistica storica e filosofica. È attenta a valorizzare soprattutto e a divulgare la storia letteraria, artistica e culturale dell'Ungheria anche ricordando gli stretti rapporti da sempre intercorsi tra questa Nazione e l'Italia, e con Ferrara in particolare, fin dal Rinascimento.»

Ferrara, 31 marzo 2001


Prof. Dr. Bonani Tamás-Tarr Melinda

DIRETTORE EDITORIALE/EDITORE
DELL'OSSERVATORIO LETTERARIO

Giornalista, Docente di Ungherese - Letteratura -
Storia, Traduttrice-Interprete

Invitata da
l'International Biographical Centre Cambridge
per essere inserita nella più grande
enciclopedia biografica mondiale:
«2000 eccezionali letterati del XXI secolo»




L I R I C A

Poeti dall'inizio all'Ottocento
(In ordine cronologico)

 

ANONIMO
(intorno 1150)


ORAZIONE FUNEBRE

Frammento

Vedete, fratelli con i vostri occhi chi siamo?
Siamo polvere e cenere.
Egli con quanta clemenza creò il nostro avo,
Adamo, e gli donò il Paradiso per diventar sua casa.
E nel Paradiso anche tutti i frutti, e gli disse di vivere
Senza mangiare il frutto dell'albero che gli proibì.
E gli disse perché non mangiarlo.
«In quel giorno quando mangerai il frutto di quell'albero,
andrai incontro alla sicura morte.»


 
 
 

JANUS PANNONIUS
(1434-1472)

 
LAUS GUARINI/LODE A GUARINI

Molto deve al suo Camillo Roma rinnovata
Ma di più al suo Guarino la lingua latina.
Quella non era stata distrutta alla piena rovina ;
Questa, quando fu salvata, era in assoluto barbara.

 
 
DE EODEM/DELLO STESSO

Evviva! La lingua latina assopita per tant'anni
Fiorisce di nuovo. È il merito di Guarino.
Cedi il posto raggiunto dagli avi alla dolce Merano!
È facile generare, vivificare è ponderoso.

 
 
AD LEONELLUM FERRARIAE PRINCIPEM
AL LEONELLO, PRINCIPE DI FERRARA

Per quant'ancor siam giunti, Principe Leonello,
alla tua città dal gelido cielo dell'artico Polo;
Perdona, non ci attrasse la tua inclita fama,
né la tua brillante Ferrara ricca di cultura,
né gli argini ameni dalle sette foci del Po;
Non gli occhi venimmo qui a pascere ma l'avide orecchie
Cui il verbo di Guarino dà nutrimento.

 
 
LAUS PANNONIAE/LODE A PANNONIA

Ancor'una volta, tutt'è venuto dalla terra d'Italia,
Ma ora le canzoni le canta anche la Pannonia.
Certo, mi onorano ora con una grande gloria;
Mio maggior nobil ingegno fa inclinita questa patria.

 
 
 
 

JÁNOS ARANY
(1817-1882)

 

LASCIO IL LIUTO

Lascio il liuto a riposar.
Nessuno aspetti una canzon da me.
Non so quel chi ero una volta,
dentro di me la parte miglior' è morta.
Il fuoco non riscalda, non è vivo:
è soltanto come la luce d'un albero putrido.
Dov'eri, dove sei ora
oh, giovinezza d'anima mia!

Un altro cielo mi spargeva il suo sorriso,
la terra girava in mano di velluto,
l'uccello cantava in ogni cespuglio,
quando queste labbra poetavan le canzon,
il vento era più aromatico,
il fiore del prato più colorito.
Dov'eri, dove sei adesso
Oh, giovinezza d'animo mio!

Non cantai così da solitario,
bruciai gareggiando le mie corde,
gli occhi d'amici, con l'attenzion d'arte
s'appuntarono sulle dita del liutista;
il fuoco s'accese dalla passione
ed in un unico braccio s'intrecciò ogni fiamma.
Dov'eri, dove sei ora
oh, giovinezza d'anima mia!

Cantammo la speranza del futuro,
piangemmo il lamento del passato;
coronammo la nazione, la patria
coll'aureola:
come una foglia fresca ogni nostro canto
si mescolò con la corona dell'albero.
Dov'eri, dove sei adesso
oh, giovinezza d'animo mio!

Oh, sembrammo veder sulla nostra tomba
riflettere la fama,
sognammo popolo e Patria
che viveva per sempre e ci si ricordava.
Credemmo invano: quando la laurea ci spettava
qualcuno ce l'avesse consegnata...
Dov'eri, dove sei ora,
oh, giovinezza d'anima mia!

Ora... mia canzone orfana, tu che cosa sei?
Forse lo spirito dei miei canti morti?
Che dal cimitero come un fantasma
dopo la morte ritorna...?
Coltre floreale variopinto...?
Parola che grida nella landa...?
Dov'eri, dove sei ora
oh, giovinezza d'anima mia!

Lascio il liuto. È pesante quello.
Chi s'interessa già del mio canto?
Chi è felice a veder un fiore vizzo
quando il gambo è già morto?
Se si svezza la vita dell'albero
Il fiore lo sopravvive solo per un minuto.
Sei persa, lo sento, sei persa
oh, giovinezza d'anima mia!

 
 
 
 

SÁNDOR PETŐFI
(1823-1849)


LIBERTÀ, AMORE!

Libertà, amore!
Voglio queste due cose.
Per l'amore sacrifico
La vita,
Per la libertà sacrifico
Il mio amore.

 
SE ALBERO FOSSI

Sarò albero, se sarai suo fiore.
Se tu sarai rugiada io fiore sarò.
Sarò rugiada se tu sarai raggio di sole...
Mi basta che siamo una cosa sola.

Se, fanciulla, tu sarai il paradiso:
Allora io diventerò una stella,
Se, fanciulla, tu sarai l'inferno: (per
Unirci) io sarò dannato.

 
 
L'EROE GIOVANNI

LE AVVENTURE DI GIANNI GRANOTURCO
(Fiaba poetica)

Frammenti

1

I raggi scottanti del sole estivo
picchiano il pecoraio dalla cima del cielo,
ma è inutile riscaldare così tanto
il pecoraio ha il caldo lo stesso.

La fiamma dell'amore brucia nell'anima
di colui che pascola il gregge nella periferia.
Mentre le bestie stanno disperse nel campo
egli giace sulla sciuba* tra le erbe del prato.

Fiori variopinti lo circondano dappertutto
ma egli su essi non getta alcuno sguardo
invece guarda incantato verso il ruscello
il quale dista da lui appena a qualche passo.

Non osserva le schiume dell'acqua
ma nel ruscello una bella bionda fanciulla
La sua statura di longilinea,
i lunghi capelli ed i seni maturi.

La gonna della fanciulla è tirata fino al ginocchio
perché sta facendo il bucato nel fresco ruscello;
le sue belle ginocchia emergono dall'acqua
per il piacimento di Gianni Granoturco.

Perché sull'erba il pecoraio steso
non è altro che Gianni Granoturco.
E la fanciulla che nell'acqua fa bucato
è Elenuccia, il diamante del cuor di Gianni.

«Guardami un po' tesoruccio mio!»
Gianni Granoturco così l'ha supplicato:
«Guardami verso di me solo un attimo
tu sei l'unico mio svago in questo mondo.

Gettami gli sguardi dei tuoi occhi azzurri
esci da quell'acqua, perché vorrei abbracciarti;
soltanto per un momento vieni sulla sponda
che possa baciare sulle tue labbra la mia anima!»

«Sai bel cuor mio Gianni, lo farei con piacere,
se non avessi fretta con questo lavaggio;
ma devo sbrigarmi, altrimenti mi faranno male;
io sono solo la figliastra di mia madre.»

Così ha parlato la bella bionda Elenuccia
e lavava i capi con grandissima fretta.
Il pecoraio ora si alza dall'erba
e la avvicina mentre la chiama allettandola:

«Esci picciona mia, vieni qui adesso!
Ti bacerò ed abbraccerò in un solo istante;
poi, tua matrigna ora non è in queste parti,
non lasciarmi soffrire di languore mortale!»

L'indotta ad uscire con le sue dolci parole:
ora l'abbraccia con le sue forti braccia
e bacia la fanciulla non una volta, neanche cento volte
chi sa di tutto potrà dire quante volte.

* Pelliccia di pecore
 
2

Il tempo però ha volato velocemente
Sulle schiume del ruscello è già il rosso tramonto.
La matrigna è furiosa per il gran ritardo:
Dov'è la fanciulla, perché ritarda così tanto?

La matrigna crudele così stava meditando;
E poi le parole seguivano i pensieri:
(E non si può dire che esse eran pronunciate di gioia,)
«Vado a vederla che cosa sta facendo? Guai a lei, se ozia!

Ahi, ahi! Elenuccia povera orfana fanciulla!
Dietro le tue spalle arriva la strega furiosa;
Apre la sua grande bocca, i suoi polmoni si dilagano
E così si sveglia dal sogno d'amore:

«Creatura disonorata! Infame ragazza!
Hai coraggio farmi questo sotto la luce della giornata?
Scansafatica, pigra, non fai mai niente!
Non lavori?... accidenti, sii maledetta!»

«Adesso basta, ora stiate zitta signora.
Chiudete quella bocca, se no, noi lo facciamo.
Non osate più farle male neanche con le parole!
Altrimenti perderete anche quei pochi denti.»

In difesa del suo amore tremante
il pecoraio coraggioso così ha parlato;
poi con lo sguardo arrabbiato
ha aggiunto ancora queste parole:

«Se non volete che dia il fuoco alla vostra casa
Non osate toccare più quella povera orfana.
Ella sta lavorando tutto il giorno senza sosta
e riceve in cambio del pane solo la secca crosta.

Ora vai mia Elenuccia, non avere paura:
e fammelo sapere se ti farà male ancora. -
E voi non badate che ella cosa sta facendo
voi non siete stata migliore delle altre donne.»

Ed ora Gianni Granoturco prende la sua sciuba
e per cercar il gregge s'allontana in fretta;
si accorgeva con il gran spavento
che solo qualche bestia è rimasta sul campo.
 

3

Il sole già dall'alto guardava il prato
quando Gianni è riuscito a recuperare qualcosa,
non sa dov'è finita l'altra metà del gregge:
Ladri o i lupi l'hanno fatto sparire?

Può esser in qualsiasi parte, egli è disperato
perché la ricerca non ha avuto risultato.
Che cosa dovrà fare? Ha preso il coraggio
ed è tornato a casa con il resto.

«Ne avrai la paga, Gianni... lo credo proprio!»
pensava tristemente queste parole,
«Il padrone è nato sotto le stelle cattive,
non parlando ora... mah... sia la volontà del Signore!»

Così meditava, ma non poteva continuarlo
perché è già arrivato al portone.
Davanti esso lo aspettava l'irato padrone,
e cominciava a contare le sue pecore.

«Padrone mio, basta contarle, è la verità:
ho perso le pecore, manca la gran parte;
mi dispiace tanto, ma non è colpa mia»
così gli parlava Gianni Granoturco.

Il padrone così ha risposto mentre
ha sistemato i baffi: «Non prendermi
in giro, Gianni! Lo scherzo non lo conosco!
Finché le tue cose vanno bene, non farmi arrabbiare!»

Ma si è scoperto che non era uno scherzo,
ed il padrone è uscito di senno:
urlava come un matto dallo straziante pianto:
«Forcone, forcone di ferro!... vorrei ucciderlo!

Oh, mascalzone, delinquente da forca!
Che i corvi ti tolgano gli occhi...
Per questo ti ho mantenuto? Per questo ti ho cibato?
Ti auguro che con la forca sii giustiziato!»

Vattene da qui! Non ti voglio più vedere!»
Così urlava il padrone di Gianni
e prendeva la bica del fieno
e con esso gli correva dietro.

Gianni Granoturco è scappato veloce
non perché egli di lui avesse paura
che aveva la forza di venti ragazzi
nonostante che non aveva ancora vent'anni.

Egli è fuggito, perché ha visto chiaro
che il suo padrone non ha torto affatto,
ma non voleva far male a questo essere
che egli per lui era come un padre.

Correva finché la sua forza gli ha permesso;
poi camminava lentamente, ogni tanto si è fermato.
Andava a destra, andava a sinistra, ma poi perché?
Non lo sapeva: grande caos impadroniva la sua mente.

 
4

Quando l'acqua del ruscello è diventata uno specchio
in cui mille stelle si rispecchiavano,
Gianni si è trovato sotto il giardino della fanciulla
ma non lo sapeva come fosse arrivato a casa sua.

Si è fermato e ha preso il suo flauto
Per suonare la sua canzone più triste:
la rugiada ha coperto tutta la erba
forse era la lacrima delle stelle pietose.

Ma la ragazza era già nell'impero del sogno
a dinanzi del giardino come sempre nell'estate.
Sentendo la melodia conosciuta
è corsa da Gianni per vederlo.

Vedendo suo Gianni non le ha fatto piacere
si è spaventata e gli ha domandato:
«Mio caro Gianni perché sei pallido
come la luna calante nella triste notte d'autunno?

«Oh, mia dolce Elenuccia, sono pallido,
dalla gran tristezza: il tuo caro viso
forse ora lo vedo per l'ultima volta:
partirò per sempre, per le terre lontane...»

«Giannino mio, mi spaventi con queste parole:
per l'amor di Dio, non parlare di queste cose...»
«Sono qui purtroppo soltanto per salutarti,
non posso rimanere, sono costretto di partire...»

E così egli le racconta tutta la storia
salutandola teneramente l'abbraccia
ma egli gira il capo nascondendo gli occhi
per non far vederle i suoi lacrimoni.

«Allora mia cara, dolce Elenuccia
addio, ed il Signore ti protegga!
Non dimenticarmi, ricordati di me
tuo fidanzato ritornerà da te...»

«Caro mio Gianni, se devi, vai pure!
Il buon Dio sorvegli le tue iniziative,
sarai sempre vivo in questo tetro animo
il mio amore non lo toglierà nessuno!»

Si son separati come le foglie dall'albero
i loro cuori come se fossero l'inverno
Elenuccia piangeva perdendo dei lacrimoni
e Gianni partiva lentamente per i mondi ignoti...

 
 
 

IMRE MADÁCH
(1823-1864)


 
LA TRAGEDIA DELL'UOMO

PRIMA SCENA

Il Signore, nel Cielo con l'aureola sta seduto sul trono circondato dal coro degli angeli inginocchiati. I quattro arcangeli stanno accanto al trono. Luce luminosissima.

CORO DEGLI ANGELI

Gloria al Dio nell'alto,
La terra ed il Cielo lo adori!
Egli con una sola parola creò il mondo
e la fine dipende da un suo sguardo.
Egli è la forza, la sapienza e la felicità in unica persona
e noi siamo una parte della sua ombra.
Lo adoriamo per l'infinita clemenza
Di averci donato una parte della sua gloria.
Il verbo eterno ha preso la forma del corpo,
e così la creazione è già stata terminata.
Il Signore attende al suo trono,
senza ritardo, da chiunque che da Lui
ha ricevuto l'alito, un degno tributo.

 
IL SIGNORE

Sì, la grande opera è stata terminata.
La macchina gira, il creatore riposa.
Tutto l'Universo, sull'orbita del cielo
per milioni d'anni girerà senz'un'intervento.
Miei spiriti custodi lanciatevi sulla vostra orbita infinita,
e di voi per l'ultima volta vorrei godermi
mentre passate sibilando sotto i miei piedi.

 
 
 

Poeti dall'Ottocento fino ai giorni d'oggi
(In ordine alfabetico)


 

ENDRE ADY
(1877-1919)


 
UNA CANZONCINA NATALIZIA

Ieri hanno suonato le campane,
domani suoneranno le campane,
dopodomani gli angeli
porteranno la neve di diamante.

Vorrei lodare
Dio da grande,
ma son un piccolo bambino ancora,
comincio a vivere soltanto ora.

Eppure mi preparo
per lodare Dio,
come son felici i pastori
ed i Re Magi.

Anch'io andrei, andrei,
andrei a cantare,
per Gesù tra i grandi
farei tante belle cose.

Nel fango i miei stivali nuovi
li sporcherei cento volte
per testimoniare al Signore
il mio grande amore.

 
 
I MESSIA MAGIARI

Le lacrime qui son più salate
Anche i dolori sono altri.
Sono mille volte Messia
I Messia magiari.

Muoiono mille volte
E la croce non ha beatitudine,
Perché non potevano far niente,
Oh, non potevano far niente.

 
 

MIHÁLY BABITS
(1883-1941)


 
NUOVI LEONINI*

Azzurre sono le colline di tramonto e ferme le grige colombe,
è muta la campagna serale, tarda greggia cammina lemme lemme.
Lampo; tuono distante; nel paese rumore lontano del carro si ode,
armate temporalesche si radunan: prima viole, poi già annerrite.
Le finestre si chiudono per le tenebre, arrivano i gufi notturni,
i piccoli casali son silenziosi, hanno paura tutte le madri.
Ai pallidi monti azzurri l'acquazzone lontano dona un velo;
soffia il vento; scoppia il cielo; polvere copre il vuoto paesaggio.
Ecco la cara tra le mie braccia - bella serata d'amore;
il mondo piange e teme; vieni con me, mio orfano fiore.
Tintinna la finestra quando ti prendo in braccio!
Appoggia il capo al mio cuore; comincia fuori a piovere.
Brilla spesso il lampo; i tuoi occhi tristi son fulmini divini.
Scoppia fuori il cielo, sulle tue labbra brucian i miei baci.
Oh, lampo, oh, temporale; magari ci folgorassero insieme
riducendoci in cenere: felice colui che potrà così morire.

* Leonìno detto di verso latino medievale, dove il primo emistichio rimava o assonava col secondo; probabilmente dal nome del canonico francese León de Sant-Victor, in latino Leòninus,, Leonio che sarebbe (sec. XII) il creatore di questo tipo di versi e di rime.

 
PAESE NERO

Un paese nero l'ho sognato io,
in cui tutto era nero proprio,
tutto nero, ma non fuori soltanto:
fino all'osso, nero fino al midollo,
nero,
nero, nero, nero.
Un cielo nero ed un mare nero,
casa nera ed albero nero,
animali neri, uomo nero,
gioia nera, lutto nero
nere pietre e minerale nero
ed alberi neri, e suolo nero
uomini, donne di color nero
e il mondo nero, nero, nero.
Ecco, scava; taglia pure
la materia pigra, massiccia,
il suolo nero, le montagne nere
picchiali col piccone, perforali col trapano
vai al profondo immergiti nel rusciello d'indaco
che scorre ed espande il suo nero liquido,
guarda il seme dell'erba, guarda la ghianda dell'albero,
guarda l'uovo del colombo, guarda il germe,
nero, nero, nero,
nero tessuto e nero ingegno,
nero viso, e nero affanno,
vena nera, sangue nero,
nero midollo e nero osso.
La luce del sole è un altro colore ,
di tutti i colori il sole è il pittore:
nero dentro l'ossatura del globo
non la luce pittura il colore
col suo snello pennello
no:
nella materia l'animo nero segreto,
ahi,
nero, nero, nero.

 
 

ENDRE DÉKÁNY
(1926)


 
ALBA DI PASQUA

«...Ed i cieli girio-ceneri cominciano a rombare...»
(J. Pilinszky: Il terzo giorno)

I colori sono diventati grigi
dall'era e dai nostri peccati accumulati.
La visione del Venerdì Santo giorno dopo giorno
ritorna ed i nostri occhi accecati non hanno
neanche una lacrima. Il pianeta di color blu spara
delle scintille e della gente in fiamma.
Ma la Vita imprigionata sorge sotto le pietre
rocciose, la Forza onnipotente rinnova tutto
e la nuova luce dall'abisso del mondo
si alza in alto.

Ascolta all'alba del terzo millennio:
i cieli grigio-ceneri cominciano a rombare
e nella mensa del nostro animo emmausiano
stiamo spezzando il pane divino.

 
 
 

ANNA FAZEKAS
(contemporanea, dati anagrafici irreperibili)


 
PRIMAVERA

Bufere di vento coll'odore di terra
cacciano il gelo.
L'incorporea nebbia lattea
sopra i prati galleggia.
Sulle foglie gelate
la neve si scioglie.
Sgocciola anche la grondaia
è nera e di fango la terra.
È benedetto il seme nel suolo
Che si risveglia e ridà la vita.

 

 

 

ATTILA JÓZSEF
(1905-1937)


 
INVERNO

Si dovrebbe accendere un fuoco
che la gente potesse riscaldarsi.

Buttarvi dentro tutta la roba antica, meschina,
tacca, rottame e ciò ch'è nuovo e intatto,
balocchi da bambino - oh, felici rincorse! -
e gettare spargendo tutto quel ch'è bello.

Ne canterebbe fin' al ciel la fiamma ardente,
ognuno prenderebbe per mano il suo compaesano.

Si dovrebbe accendere un fuoco titano,
perché son rivestiti di brina la città e il boschetto,
strappare le maniglie ai gelidi sgabuzzini
che potesse dare un caldo intenso.

Quel fuoco, ahimè, si dovrebbe accenderlo
Che la gente potesse disgelarsi!


 
 
NON IO GRIDO

È la terra che rimbomba, non io grido,
sta' attento, attento, perché Satana è impazzito,
acquattati delle sorgenti sopra il chiaro fondo,
tieniti stretto alla lastra di vetro
dietro la luce dei diamanti,
sotto le pietre tra gli scarabei,
oh, nasconditi nel pane appena cotto,
tu povero, povero.
Penetra nella terra con gli scrosci freschi di pioggia -
invano bagni tuo viso in te stesso,
solo negli altri puoi lavarlo.
Sii dell'erba il piccolo filo
e sarai più grande dell'asse del mondo.
Oh, macchine, pennuti, frasche, stelle!
Nostra sterile madre supplica un figlio.
Amico mio, caro amico diletto,
sia tremendo, sia grandioso:
è la terra che rimbomba, non io grido.

 
O EUROPA

O Europa, quante frontiere
ed in ciascuna gli assassini,
non lasciar ch'io pianga la ragazza,
chi partorirà fra due anni -
Non permettere ch'io diventi triste
perché io sono europeo,
io l'amico dei liberi orsi
mi sto consumando privato dalla libertà -
Scrivo poesie per i tuoi divertimenti,
il mare ha raggiunto la cima dei monti
ed un tavolo apparecchiato nuota
sulle schiume delle onde tra le nuvole -


 
MAMMA

Già da una settimana
è sempre nei pensieri la mia mamma
la vedo con la cesta del bucato nella braccia
mentre saliva nella soffitta alla lesta.

Io, a quel tempo, ero ancor'una creatura sincera
strillavo dal pianto e mi stizzivo:
lasciasse alle altre quella cesta colma, portasse
invece me nella soffitta.

Ma lei saliva a stendere senz'una parola,
non mi gridava, neanche mi guardava
ed i panni luminosi e frascheggianti
volavano in alto danzando nel vento.

Ora non pigolerei... ma è ormai tardi.
Adesso vedo quanto lei è gigante -
i suoi capelli grigi sollevati fino al cielo
nell'acqua dell'etere sciolgono il turchino.

 
SALUTO A THOMAS MANN

Come il bambino che vuol già riposare
ed è ora presso il quieto letto
ti chiede ancora: «Racconta, non te ne andare» -
(così non lo coglie improvvisa la notte)
mentre il suo cuoricino sussulta più forte,
e forse non sa bene che cosa più desiderare,
la fiaba oppure la tua presenza;
così ti chiediamo: siediti tra noi e novella.
Racconta ciò che fai di solito, sebbene noi non dimentichiamo,
di' che tu sei qui assieme a noi,
e siamo con te noi tutti quanti,
noi che abbiamo pensieri degni dell'uomo.
Tu lo sai bene, il poeta mai mente:
parla del vero, non soltanto del reale,
della luce che illumina la nostra mente,
perché senza l'uno dell'altro
noi nelle tenebre siamo.
Come Hans Castorp attraverso il corpo di Madame Chauchat,
fa' che in noi stessi vediamo stasera.
Il rumore non penetra la tua parola -
parlaci del bello e dei dolori
innalzando i nostri cuori dal lutto alla speranza.
Abbiam appena sepolto il povero Kosztolányi,*
e come lui dal cancro, l'umanità si consuma
dall'orrore dello Stato-mostro, e noi domandiamo
rabbrividendo che sarà ancora,
da dove aizerranno nuove orde di idee,
e bolle già un nuovo veleno da versarci addosso -
fino a quando avrai un posto, per tenerci delle conferenze?
Ciò che si tratta, se tu parli, non ci scoraggiamo,
e noi, uomini, rimaniamo uomini,
e donne le donne - liberi e gentili
e tutti umani, che è una cosa sempre più rara...
Prendi posto. Inizia la fiaba.
Ti ascoltiamo, ma ci sarà qualcuno che ti guarda solo,
perché è felice di vedere oggi qui,
tra uomini bianchi un europeo.

* Dezs
ő Kosztolányi (1885-1936) geniale poeta, prosatore e giornalista; eccellente traduttore, uno dei massimi protagonisti del rinnovamento letterario ungherese nei primi decenni del XX secolo.


 

 

 

GYULA JUHÁSZ
(1883-1937)


 
RICORDO

Ricordi ancora quella notte estiva?
Come la luce del cielo brucia nella mia anima.

Ricordi ancora quel bacio estivo?
Suo calore mi riscalda nell'inverno.

Era una notte d'estate, era un bacio estivo.
Dolce realtà e felice segreto.

Oppure era solo una fiaba o un sogno? Non lo so.
Già incammino lemme lemme sulla via del cimitero.

Era una fiaba, un sogno, un miraggio? Forse!
Ha però preso bella la mia vita triste!
 
 
 
 

GÉZA KEMÉNY
(1937)


 
SPERANZA, PREPARA IL NIDO!...

Nebbia, giacca ristretta del marzo
Non stai bene sull'albero di mela.
Il suo ramo è scoperto, il vento lo picchia
Ed i bottoni del gelo si staccano dal tronco.

Con la schiuma vaporosa corre il ruscello
Gocciolando un messaggio del tempo.

Trema il bosco pieno di germogli,
carteggia coi profumi-colori,
una luce focosa si trasforma in fiore nuovo,
speranza, prepara il nido sul mondo!

 
 
 

MIKLÓS RADNÓTI
(1909-1944)

 

O, VECCHIE PRIGIONI

O, quiete, bella sofferenza
di antichi modi delle vecchie prigioni, morte:
morte di poeta, quadro eroico e sublime, -
articolato discorso, che trova ascoltatore, -
quanto lontana ormai. Entra nel nulla
chi ha coraggio di muoversi. Filtra la nebbia.
La realtà, come un vaso crepato,
è privo di forma ed aspetta soltanto
di poter sparpagliar i suoi cocci.

Che cosa sarà ora di colui, che, finché vive,
finché può, parla formalmente

di ciò che c'è - così insegna a giudicare.

Ed insegnerebbe ancora. Ma tutto è in frantumi.
E sta seduto e guarda. Perché non può far niente.

 
 
 

SÁNDOR REMÉNYIK
(1890-1941)


 
BARCACCIA

Tra le tante piccole e grandi barche
Ho visto una piccola:
Una barcaccia, adatta ad un uomo.
Sono partito con una simile
Per il mare della vita
Perché Dio non me ne ha dato un'altra.

 
 
 
 

GYÖRGY RÓNAY
(1913-1978)


 
IL VECCHIO POETA

Ogni mattina
appoggia un foglio davanti a te.
Che bianco.
Che immenso.
Senz'alcun dubbio, arditamente,
navigatore marino,
esploratore del deserto,
come sei riuscito a peregrinare su di esso
verso le oasi ignote?

Navigatore infermo,
tu ora stai soltanto seduto sulla riva marina,
sull'orlo del deserto c'è un beduino lebbroso,
accanto a te sulla terra, giace il tuo cappello,
il palmo della mano steso per l'elemosina
rimane vuoto fino all'arrivo della sera.

Che bianco.
Che piccolo finestrino di prigione.

Rimettilo nel cassetto.

Anch'oggi sei rimasto privo d'ispirazione.


 

 

MELINDA TAMÁS-TARR
(1953)


 

 

APOLIDE


Quando qualcuno mi dice:
"Sei fortunata, hai due patrie!" -
non lo sa neanche
quanto mi ferisca
questa frase...

Due patrie!...
magari, potessi dire!
Ma non è così -
e mi sento apolide.

E' vero,
ho la doppia cittadinanza:
l'ungherese ed italiana...
Ma per l'Ungheria
son già solo straniera,
e qui in questa penisola
non sono ancora italiana...

Due patrie!
Che grottesca situazione!
Ma in realtà sono soltanto
senza radice: non appartengo
più al corpo della terra magiara, -
non sono ancora ben radicata
in Italia, nella mia nuova patria...

 


 

 
OH, FERRARA...

Città-Estense, oh, Ferrara,
tu, bella addormentata
della pianura padana
adottami, non essere spietata...

Tu sei rigida, crudele
con la gente non ferrarese
come me, che cerca di essere
una tua figlia degna di te...

Ma tu non mi prendi,
neanche consideri,
e anno dopo anno
mi umili soltanto.

Sei una duchessa vanitosa
e dalla superbia anche cieca,
priva di sentimenti,
posseduta da secoli
dai provinciali gelidi!

 


 
 
 

ÁBEL TOLNAI BÍRÓ
(1928)


 

 
QUANDO L'ARCO SI SPEZZA

Motto:

«L'affetto è un filo d'oro
e quand'esso vien strappato
si potrà pur aggiustarlo
ma rimarrà sempre un nodo.»

Un cordone unisce un figlio al genitore
con le sue estremità nel loro cuore.
Esso nell'unione è un filo conduttore,
lo si deve estremamente proteggere.

Tirandolo, come un arco troppo teso,
esso si spezza e non puoi più rimediarlo.
La corda dell'affetto non è di stoppa:
essendo rotta non si riesce a suonarla.

Ha emesso un pianto quando l'hai spezzata
e l'attrazione ci è così interrotta.
Ma non te ne importa dalla superbia,
però di ciò ricordati alla nostra sepoltura.

 
 
AVE MARIA DEI MAGIARI

Ave Maria, piena di grazia,
Patrona del nostro popolo, sii clemente con noi
Tu sei benedetta tra le donne
E rispettata tra i Magiari coll'amore,
E benedetto è il frutto del tuo seno
- Il Suo insegnamento è piantato nel nostro cuore -
Gesù
Cristo

Nostra Signora, Vergine Maria, Santa Madre di Dio
Prega per noi peccatori,
Che dal Santo Stefano fummo affidati alla Tua protezione,
Prega per noi, il Tuo popolo magiaro oppresso,
Adesso e nell'ora della nostra morte,
Che col nostro inno possiam adorarti sul tuo trono celeste.
Amen.

 
 
I DUE MOMENTI DELLA GRATITUDINE

1. GLI UOMINI

Gli uomini son interessanti:
Van benne i loro affari?
... Si dimenticano.

Ma, quando il mare dei guai li investe
Allora, però, si ricordan dell'amico d'un tempo.
Vengono pure anche a trovarlo:
Bussano con umiltà al suo cancello.

...Che cosa devo fare? Non ci penso
un attimo,
Il loro problema lo risolvo subito...

Con grande gratitudine mi salutano.
...Poi... nuovamente
mi dimenticano...

 
2. IL CANE

Un cane randagio
m'ha seguito,
Poi davanti a me, implorando, s'è fermato:
Nei suoi occhi era nascosta la speranza
- Ciò nonostante era anelante dall'ansia? -

Hai fame? Dimmelo!
- ho chiesto -
(I suoi occhi parlavano di questo).
Gli ho lanciato un pezzo di panino.
Esso l'ha preso e mangiato subito.
...Ed io ho ripreso il cammino... Ma che
momento gioioso!
Esso ha uggiolato dietro alle mie spalle,
come se mi avesse detto: mille grazie!

 
 
 

ÁRPÁD TÓTH
(1886-1928)


 

 
NUVOLA D'ORO

La nuvola d'oro sul cielo
Dove va? Dove va?
Io giaccio sul prato di sera
Nell'oscurità sull'erba,
Tace la campagna.

La nuvola d'oro sul cielo
Se ne va, se ne va,
Un cuore sul prato di sera
Nell'oscurità sull'erba
Tacendo duole.

 
 
NELL'ORA INFRUTTUOSA

Sono solo.
Tanto.
Le mie lagrime sgorgano.
Le lascio.
Una tela cerata sul mio tavolo,
Sto fabbricando pigramente un canto,
Io, un personaggio macilento, pietoso,
Io, io.
E sono solo in tutto l'Universo.

 
 
 

GYÖRGY VÉGH
(contemporaneo, dati anagrafici irreperibili)


 

 
PERCHÉ NON C'È FIORE NERO?

Non hai mai visto
un fiore nero
perché i fiori
son senza dolori.

Sono felici in bianco
E ridono in azzurro,
il profumo dei loro capelli
vola intorno ad essi.

 

 

 

 

SÁNDOR WEÖRES
(1913-1989)


 
 
SE IL MONDO MERLO FOSSE...

Se il mondo merlo fosse
nel mio grembiule fischierebbe,
giorno e notte ben canterebbe
se il mondo merlo fosse.

Ma se il mondo merlo fosse
nel mio grembiule non ci starebbe,
non potrei averlo, neanche
se tutto il mondo merlo fosse.

 


 

 

N A R R A T I V A

 

 

ANNA JÓKAI
(1932)

 

L'ANGELO DI REIMS

Sta là nell'angolo stretto del portone con le ali ancora tese dal viaggio.

«Eccomi» - dice alla statua dell'uomo mutilata lì accanto. E sorride civettando col musetto come se si facesse scoprire dopo un lungo gioco a nascondino. L'uomo è offeso. Sulla sua fronte si notano tre rughe profonde e non guarda neanche l'angelo. Forse non lo sente neppure. Guarda avanti, sulla terra, socchiude le palpebre gonfie, disperato. «Non ne posso più» - dice nonostante che sia un santo. La nicchia gotica si estende sopra di loro. Le dita affilate cercano la ragione che si sta allontanando. È già l'autunno ma le trine di color giallo son ancor più freddo. Si rifugiano qua gli hippy; una scatola vuota di conserva rumoreggia mentre sta rotolando giù dagli scalini; il pesce al pomodoro schizza le pietre. Jean-Baptiste tira fuori la sua pipa, il fumo s'imbatte nel viso dell'angelo. Louise ride. Piace a Jean-Baptiste: «Lo affumichiamo da qui.» Strofina le dita sporche nel piede dell'angelo. Il pomodoro brilla come sangue. «Dov'eravamo ieri?» - chiede Louise e si copre con la maglietta decorata coi fiori neri tirandola fino alle caviglie. «Non è indifferente?» Jean-Baptiste si risiede accanto, toglie le calze e strofina i piedi nudi contro gli spigoli della scala. «E dove andremo da qui?» «Non domandarmi - risponde il ragazzo - a chi domanda la gente gli risponde delle bugie». La ragazza alza le spalle e si stende sulla scala al rovescio, con la testa in giù. «Questo è il nostro angelo - dice improvvisamente -, guarda i capelli». È vero, sulla fronte e dalle orecchie le ciocche morbidamente cadono. Jean-Baptiste sta facendo le frange sull'orlo dei pantaloni. «Noi non abbiamo l'angelo.» «Io ho una volta pianto» - dice Louise apparentemente in modo illogico. Il ragazzo cerca qualcosa nel sacco rotto. Prende la bottiglia arancione a fibbia. L'offre alla ragazza, beve un sorso. È mattina, Jean-Baptiste fa la pipì dai piedi dell'angelo che come un ruscello scorre in giù. «Anche noi creperemo» - dice Louise. «Non ce ne accorgeremo.» Jean-Baptiste intreccia i capelli.. «Noi non produciamo dei dolori. Il nulla è contento di nulla. Tu lo capisci?» Una macchina chiusa, una Mercedes passa davanti alla chiesa poi scompare a sinistra. «Chi è intelligente? - chiede Louise - colui che assume un atteggiamento senza scopo o chi nega ed inventa la scatola di latta a quattro ruote?» «Porci - Jean-Baptiste sputa -, ma tu non domandare.» La macchina blu profondo ritorna dal lato destro e frena davanti alla scalinata. La porta segreta s'apre ed il capo famiglia scende. La bionda barba curata inghiottisce le labbra. Aiuta la moglie nel scendere. Anche i capelli della moglie sono biondi, lineari, tagliati con precisione, tutte le ciocche di capelli hanno la stessa lunghezza ed arrivano fino alla metà della schiena. Anche le figlie sono bionde: due bambine. Indossano un cappello bianco di cotone fissato con un nastro blu sotto il mento. I loro denti sporgono un po' avanti, questo le dà un aspetto curioso. «È pure questo» - dice Klaus. S'incammina, la signora e le figlie si mettono in coda dietro di lui. La barba di Klaus si sbandiera come uno scudo. Evitano Jean-Baptiste e Luoise, pure gli sputi, la salsa e lo stagno della pipì mentre di nascosto gettano uno sguardo verso loro. «È triste. Ehi, che triste» - dice Hilde e sistema il suo cappellino bianco. Jean-Baptiste e Louise fanno la linguaccia al massimo della lunghezza, ed emettono dei suoni da pecora. «Perché hanno fatto così?» - chiede Hilde. «Così esprimono il loro essere animalesco - dice Klaus - e tutto il loro disdegno per ogni cosa che elogia la grandezza dell'intelletto umano La scalinata della cattedrale su cui camminiamo è un esempio pregnante del puro gotico...» La bimba più piccola con cappello bianco guarda Jean-Baptiste e Louise di nuovo con meraviglia. S'inciampa nell'ultimo gradino della scalinata. Il padre se ne accorge e per avvertirla, senza collera preme il pollice tra le costole della bambina. «Ahi! - grida di dolore un attimo la ragazzina ed entra disciplinata nel buio. «Li sterminiamo? Tutti questi?» - chiede Luoise. Sta lanciando delle carte piccicose dal sacco. «Sciocca. Deridili. Lo vedi - indica verso l'alto - anche quello ride di tutto». Con una mano raggiunge il ginocchio dell'angelo, lo palpeggia intorno poi prendono il sacco, se lo trascinano dietro sé perdendosi nella polvere.

Klaus guarda con gli occhi socchiusi nella luce, chiude il libro di guida. «La ricchezza della navata laterale gareggia con quella della trasversale - dice -. Sbrighiamoci, Hilde. Ce ne sono ancora altre tre.» «Klaus - la signora si ferma al fondo della scalinata, le due figliole le sono accanto e leggermente si appoggia a loro - qui ci dovrebbe essere un angelo. Un angelo qualunque... - continua insicura nel silenzio - così dicono i libri.» «È un'affermazione tradizionale. Si abbondano di angeli. È la caratteristica della chiesa medioevale» - risponde con tono professorale. «Ma questo è un altro angelo... è particolare... » - dice Hilde e si regge al sottile collo delle bambine. Klaus la guarda severamente. «Tutti gli angeli sono uguali. È un ornamento banale. Non ti capisco, Hilde.» Hilde ritenta, fa un passo indietro sulla scalinata. Le bambine non la seguono, si fermano. Klaus è già dalla macchina. È spaventosa questa disgregazione, la sbrecciatura dello spigolo. «Vengo, Klaus» dice e si siede nella macchina con la gonna sistemata liscia. «Dove andiamo ora, lo sai?» «Non ti capisco, Hilde» - ripete l'uomo. Infila le mani nei guanti traforati, accende il motore. «Siamo arrivati da Metz ed andiamo attraverso Parigi direttamente a Chartres. È chiaro?» Le bambine stringono il nastro sotto il mento. Hilde fa un cenno col capo, i suoi capelli le cadono sul viso mentre la vettura balza un po' in avanti.

«Sono in ritardo» - ansima la signora Chouchou e col bastone picchia il lastricato cinque volte. «Sento che qui mi daranno qualcosa. Lo sento» Suole stare sempre presso il portone laterale. Gli stranieri pensano che tenga la scatola d'argento in nome della chiesa. «Cara Madonna mia, aiutami!» - dice all'angelo. «Che giornata, cara Madonna mia! Tu riesci a sistemare tutto. Adesso dove corro? Piuttosto al cinema? Cara Madonna mia - dice all'angelo con caparbietà - ti chiedo soltanto due settimane di tempo sereno, così avranno voglia di venire... Porta coloro che hanno e danno! Per te questo è niente. Vedi, io credo in te, in cambio tu mi sistemi... Aiuta i tuoi fedeli e non i nemici, sii carina, sii intelligente cara Madonna mia!...» alita un bacio sulla mano incrociata in preghiera e lo passa sulle pieghe del vestito dell'angelo. «Il sorriso non basta - dice con un leggero rimprovero - questo lo puoi ammettere.» Si appoggia sul bastone, osserva la via principale; il sole le raggiunge gli occhi, la scatola d'argento lo riflette, suoni di Morse vibrano nell'aria. «Cosa? - dice la vecchia - Devo andare dove sono esposti i gioielli d'incoronazione?» Diventa più agitata. «Potrò farlo. Ma se di nuovo mi mentirai sarò arrabbiatissima» prima di scendere col bastone dà un colpo ai gradini della scalinata. Nel cielo nuvole giganti s'accumulano e piove per molte ore. Piove tanto forte come in primavera, cadono le gocce diagonalmente, il guardiano della chiesa chiude il portone.

Dalla strada, con la cartella dei disegni, Marcello corre su, sotto l'angelo e si appoggia al muro. La pioggia lo raggiunge anche lì, l'acqua accumulata sulla pietra della statua raggiunge l'orlo del suo cappello. Correrebbe via, cercando di proteggere la cartella dalla pioggia sotto il grembiule a quadretti; guarda il cielo, ma invece di esso vede l'angelo, improvvisamente vicinissimo. Si meraviglia. Il viso dell'angelo è coperto dai sottili raggi d'acqua della pioggia, dalla cavità delle orbite e dall'angolo delle labbra le gocce cadono continuamente sul magro petto. «È bello - pensa Marcello e lo guarda incantato - sorriso eterno sotto le lacrime eterne. Non lo dimenticherò» - promette a se stesso. Porta la cartella strettamente sulla pancia mentre sta camminando sul viale alberato raffreddato. Poi non piove più. Ma il sole non torna, traspare leggermente dal grigio. Arriva un pullman a forma di balena, davanti con una piccola ed unica porta davanti. La porticina si apre, la guida scende. Fa un cenno con la mano. Tutti scendono in fila indiana, le labbra della guida si muovono. Intima anche al conducente a raggiungere la coda. Prende la chiave e chiude la porta con cura. Gli altri aspettano mentre egli sistema la chiave nel fondo della sua cartella. «Si può andare più dentro» dice la guida e gli obbediscono. Una donna col fazzoletto sul capo, con una pesante corona di capelli è titubante sulla soglia dell'entrata. Vorrebbe appoggiare la mano destra sulla fronte. La guida subito si ferma accanto a lei, prende la sua mano destra dal gomito e la aiuta cortesemente ad oltrepassare la soglia. Restano dentro a lungo. Una donna con gli occhiali da sole legge uno stampato fotocopiato, ogni tanto scruta intorno, cerca qualcosa e quando i due - la carta e l'oggetto - concordano emette un urlo di vittoria. Tornando dietro passano quasi davanti all'angelo. La guida fa cenno col capo, sussurra qualcosa alla donna con gli occhiali ed indica con l'angolo della cartella l'ultimo punto della lista. La donna vergognandosi conduce il gruppo indietro. Con una voce piacevole da contralto ripete tutto quello che si deve conoscere della statua. Due persone prendono degli appunti. La guida va avanti in fretta ed apre la porticina del pullman a forma di balena. Sta lì finché tutti salgono uno dopo l'altro, le labbra si muovono di nuovo. Allegramente trascina il conduttore sul pullman, salta su anche lui con un movimento elastico, poi tutti salutano con la mano la piazza vuota. Sta arrivando il tramonto e già si percepisce che il grigio diventerà più grigio mentre la luce si ritira.

Hriszto trascina due piene valige e sulla schiena porta uno zaino di telo.

«Magari arrivassi soltanto fino alla chiesa - sta pregando - fino a quel misero tempio in rovina. Mi siedo sulle scale tra i musoni arcaici, mi riprendo un po', poi via, andro alla stazione.»

Il pacco cade con un tonfo sulla piastra del pavimento.

Hriszto prende il fazzoletto, lo stende vi si siede sopra, chiude le ginocchia. Inumidisce con la saliva il palmo della mano duro come la cinghia. Diventa agitato. Apre il telo ceroso, cerca qualcosa. Si calma, sospira. «Ho sistemato le mie cose - pensa soddisfatto - ogni tanto penso che esco dal tempo. Ciò nonostante ci sono riuscito.»

Maria lentamente sale sulla scalinata. Una verde foulard di mussola vola dietro le spalle avvolge la crocchia di capelli incanutiti. Sotto s'apre la gonna a pieghe come una fisarmonica muta. Ha freddo, con le mani incrociate copre il collo, sembra come se con la mano sinistra volesse strangolarsi, ma la mano destra volesse impedirselo. «La gente porta con sé tutto - pensa, ma lei non ha nient'altro che un sacchettino perlato con la chiusura nichelata - sempre tutto in tutti i luoghi». L'angelo si confonde col muro, la donna lo guarda incerta, ma vede soltanto il buio concavo. Hriszto pensa che Maria sia più giovane. La sciarpa di mussola ed il sacchettino perlato traggono in inganno. S'avvicina e posa i suoi tesori sul gradino della scalinata. «La tecnica - dice con orgoglio -, la radio. Sech Transitor. Verstehen? Six.»

«Son venuta da casa - pensa Maria -; mia figlia a casa tinge i suoi capelli finti. La figlia di mia figlia rigetta i cibi nutrienti. Il padre di mia figlia guarda la tivù e beve la birra».

«Magnetofono - dice Hriszto e sistema le cose in modo febbrile -, Made in Japan. Frist Class... »

Accende le piccole, sottili torce, s'agita con le mani, ridacchia. Maria distratta fa cenno col capo. «Peccato - pensa - ora è già definitivo: non hanno chiuso il mondo. La mia finestra è diventata opaca.»

Hriszto mostra un paio di forbici giganti schioccandole. «Perfetto... perrrfetto...» arrota la 'r', salta balzando sulle lastre di pietra.

Maria vorrebbe alzarsi quando accendono i riflettori laterali. L'uomo vede il viso della donna da fronte, raccoglie le sue cose frettolosamente. L'angelo risplende ed il suo sorriso si stende dall'ombra.

«L'angelo - dice Maria sgomentando - l'angelo.»

«'Ein' Engel - Hriszto fa cenno con le mani - nur ein Engel.» Indica il riflettore da duemila Watt: «La tecnica... Ja... La tecnica, ja... Aber Engel...» - muove la testa dispiaciuto. Ha fretta. Alle ventuno e venti il treno parte, prende la coincidenza, a casa.

La donna resta ancora. Prova a guardare dietro la statua. Poi si allunga, stira le dita dei piedi mutilate. Questa luce è furba. Avanza dal basso verso l'alto.

«Che cosa sai tu? » - chiede all'angelo. La provoca quel suo ininterrotto sorriso.

(1972)

 

 

MÓR JÓKAI
(1825-1904)

 

 

LEGGENDE ACCANTO AL CAMINO

III

Bandi Bokor fu un famoso bandito.

Quanti bei cavalli rubava, quante belle donne amava!

Alla fine lo catturarono. I padroni dei cavalli rubati avrebbero sentito anche compassione per lui, ma i mariti padroni delle donne amate non gli concessero alcuna grazia. Bokor Bandi venne condannato a morte.

Così finisce una vita da brigante.

«Io dovrei andare all'aldilà senza il mio capo?» domandò al carceriere.

«Eh, sì figlio mio, ma lo metteremo accanto al tuo corpo.»

«Va bene, ma non andrò via senza i miei stivali!»

«A cosa ti serviranno gli stivali?»

«Non potrò attraversare la città con i piedi nudi... Molti dei miei conoscenti, gran signori, saranno là; potrebbero pensare che ho tanto bevuto da dover vendere i miei stivali... ma non è così, soltanto li ho dovuti lasciare nel luogo dove mi hanno catturato... mi prenderebbe in giro tutto il Paese, tutto il mondo domandando: "Che razza di bandito è questo se non è stato capace rubare neanche un paio di stivali?!»

Bandi Bokor, dunque, non si confessò finché non gli portarono un paio di stivali.

«Che lavoro è questo? - gridò col calzolaio - Quanto tempo dureranno con questa suola sottile?»

«Dureranno fino alla morte» gli rispose il calzolaio.

«Lei non mi tradisca! Me ne porti un paio più resistente!»

A mezzogiorno, per pranzo, il carceriere gli portò il castrato.

«Amico mio - Bandi Bokor gli disse - il mio dottore mi ha severamente proibito di mangiare questa carne perché mi provoca l'emorroide, che è un malanno lungo: io devo tenermi lontano da esso.»

A causa della sua salute gli dovettero cucinare un altro cibo meno dannoso.

Appena si mise a tavola, arrivò il boia comunicandogli che lo attendevano.

«Amico mio, non vorrai mica che a causa tua mi alzi dalla tavola? Tu hai tempo anche dopo, ma io no. Aspetta.»

E con grande appetito continuò a mangiare.

Mentre salì sul batibolo il vento portò via il suo berretto.

«Ehi, baffino, dammi il mio berretto!» gridò, ma dopo un attimo anche il suo capo volò dietro ad esso.

Era così pazzoide Bandi Bokor.

 

 

MARGIT KAFFKA
(1880-1918)

 

SIGNORE

Nel pomeriggio di un grigio inverno le donne pallide e goffe sono arrivate una dopo l'altra, sul loro volto affaticato si disegna la grande amarezza. Queste madri della miseria sono insoddisfatte con stupida testardaggine in questo giorno di visite gratuite: ospiti maldisposte ed informi; tenendo sul braccio o conducendo i loro piccoli infelici, magri, alcuni con la corporatura difettosa. Un piccolino vestito di stracci vede appena; gli occhi gonfi di color azzurro acqua sono nascosti nel suo volto pieno di frinzelli. Un altro bambino pallido con le gambe storte zoppica accanto alla robusta madre aggrappandosi alla sua gonna: il suo sguardo è curioso-sorridente. Un lattante agonizzante con la faccina grande appena come un pugno con le bluastre labbra deboli cerca il capezzolo nero-marrone della magra mammella della madre. Tutti questi non hanno trovato posto nella clinica: è inutile; - cosa potrebbe dire il medico del "circolo"? Il rifugio finale si trova qui, nell'elemosina del gran professore, se potranno raggiungerlo. Vengono sempre più numerose, fanno conoscenza, si mettono intorno al piccolo bimbo in fasce, si meravigliano, sussurrano, oppure hanno un atteggiamento risaputo, ma la maggior parte si siede silenziosamente sulla lunga panca di legno della sala d'attesa dell'ambulatorio; - si piegano, sbadigliano o sospirano dal freddo, dalla fatica delle scale, da tutta questa goffa desolazione.

- Per oggi è già troppo! - afferma il lacché che fa ordine tra loro - Probabilmente non toccherà a tutti.

La gente lo guarda spaventata ed impotente. Neanche oggi? E allora di nuovo soltanto fra una settimana! Alcuni piccoli sofferenti cominciano ad innervosirsi. Le madri si piegano con tenerezza sopra di loro per calmarli ed in questi momenti il loro viso marcato imbellisce per qualche minuto arrendendosi nella profondità della tristezza spirituale. Ma poi di nuovo si guardano in faccia: calcolando chi è arrivata prima? Sanno già che le prime riceveranno più parole, istruzioni più approfondite; dopo le rimanenti verranno trattate con stanchezza, seccamente e per breve tempo. Sono già quasi le quattro. Il medico è ancora una volta in ritardo.

Presso la grande finestra, nell'angolo, siedono in tre: una dama che indossa una pelliccia, con un bel cappello; la sua pelle è fine. Con lei c'è la bambinaia con un gran fazzoletto, ben pettinata, veste un grembiule bianco stirato. Nel braccio tiene una bella bimbetta di due anni, con un fiocco nei capelli. Si sono isolate, provano ripugnanza e sono anche impazienti. La gran signora chiama più vicino la domestica e guarda sulla strada.

- Dovrebbe essere subito qui - si ferma cortesemente davanti a loro il lacché-. È meglio che lei sia venuta in questo giorno di visite gratuite, le pazienti private saranno le prime.

La dama fa un cenno con la testa. Ma a lei non piace di essere venuta, per caso, proprio in questo giorno. Questa miseria per lei estranea, minacciosa con la sola presenza, la infastidisce e la deprime. Ora guarda la sua piccola, la sua creatura esageratamente fine, questo fiore di vetro, quasi perfetto. La sta curando dedicandosi a lei completamente, la sta preparando alla vita con sistemi alimentari intelligenti già dalla sua nascita, anzi anche prima di essa. La bimba ora ha avuto soltanto la varicella, ma l'ha portata qui per farla controllare: che non sia rimasta qualche malattia nascosta? In questi mesi umidi non si dovrebbe portare altrove - ha qualche organo più debole? -, che tipo di protezione o rafforzamento necessita il suo organismo? È la sua bella, intelligente, unica figlia! Quando ha girato i suoi occhi nella sala, nei primi momenti si è stupita e rattristata, ha sentito compassione materna, ma poi si è accorta che le presenti la osservavano con un soffocato, insensatamente muto odio e prova sbigottimento. Sì, perché toccherà prima a lei, questo è il loro guaio. Oppure tutto quanto lo è, anche che ora lei si trova qui davanti ai loro occhi, che sta mostrando il lato più sopportabile della sua vita rispetto alle loro crudeli amarezze. Ella si sta difendendo nei suoi pensieri come se la accusassero, con fare ostile, ad alta voce. Cosa? Anche lei ha sofferto come loro per la maternità e già da allora vive per essa, ci pensa giorno e notte, ha studiato, l'ha presa sul serio. Non è sufficiente che ogni donna sia responsabile per i suoi? Questa è una missione! Ciò nonostante è scomodo stare qui ed è costretta ad avere pensieri inconsueti, ridicoli. Magari potesse tornare a casa!

Il lacché esce per qualcosa, c'è silenzio per un minuto. Poi improvvisamente, con un coraggio amaro, rimbalza la prima grossa, perfida osservazione. È volgare ed irragionevole, una delle presenti la lancia alla sua vicina, l'altra in risposta rincara la dose, trovando un pubblico disponibile tra le donne sedute di fronte. La dama fa come se non sentisse i commenti , ma percepisce un'atmosfera sconcertante nella propensione a dare sfogo a queste volgari spiritosaggini probabilmente nascoste già da tempo sottoterra, come se si fossero sviluppate mano a mano per scoppiare adesso. Esse non le hanno pensate ora, non è la prima volta che esprimono questi maldestri, ironici attacchi. Secondo il modo della gente volgare ora si dicono alcune cose tra di loro, ma indirizzandole ostentatamente ed apertamente contro di lei. Ma anche i suoi argomenti per opporsi non sono pensieri di adesso. Che cosa hanno con lei? Le danneggia il fatto che indossa un paio di scarpe buone e porta un cappello sul capo? E se anche lei non li avesse, ciò le aiuterebbe? Queste donne conoscono la sua vita da signora, le sue sofferenze nevrotiche, le sue tante croci che non sono elencabili? Ora sente l'eterna iniquità che induce a vendicarsi, con "alcune" persone, a causa dei motivi lontani ed incomprensibili delle ingiustizie di massa. Perché proprio lei? Ma è rimasta seduta al suo posto e le ascolta con una passività strana, spaventata e nervosa.

- È così! I malanni dei marmocchi delle dame con i cappelli con piuma hanno anche un odore più buono!

- Suo figlio, mia cara, può crepare dieci volte mentre il dottore fa soffiare il naso della figlia di quella per dieci pengő.

- Quella bimba non ha niente, la madre è venuta qua soltanto per fare sfoggio di sé. Là dentro si divertirà per un'ora, noi invece saremo mandate a casa. Dio mio, perché non...!

- Ricorda proprio lui: Dio...!

Si sente una risata volgare, brutta, inopportuna, poi tacciono perché nessuna è intervenuta contro di loro. Ora si sente il rumoroso, soffocante respiro del povero lattante agonizzante. Quelle tre sconosciute nell'angolo siedono distaccate, il bollente odio come una lava le circonda e le isola. La bambinaia è arrabbiata, con i suoi piccoli occhi le fissa e sarebbe pronta a rispondere come una cagna fedele, ma la dama la invita a rimanere in silenzio. Si piega sopra la figlia e le sussurra delle parole con uno sforzo spasmodico, nervoso, quasi piangendo. La bimba accarezza il viso della madre con la sua manina che è così delicata, morbida come se fosse una gattina bianca col nastro sul collo. Un bambino zoppo di dieci anni piegando avanti le spalle magre, automaticamente la guarda e sorride. Le donne adesso sono sedute in silenzio e l'odio soffocato nelle anime fa loro male. Oh, è facile per lei non ascoltarle, non interessarsi a loro. Esse possono parlare di qualsiasi cosa, non importa a nessuno! Il loro figlio è già condannato prima della nascita a tutti i malanni. I grandi signori sanno quello che possono, un figlio, due figli; ma loro debbono avere anno dopo anno dei figli, uno è ancora lattante e già rimangono gravide; sono costrette ad andare a lavare, stirare anche con le vertigini. Già, l'appartamento e il cibo! Quando si tagliano sei-sette fette di pane, se ne consuma già in una volta un chilo. Se potessero raccontare tutto quanto: la loro vita da bestie già dall'infanzia nebbiosa, confusa!... Eh, già... i loro figli! È arrivato un morbo perfido e crudele - chissà da dove - semplicemente dal loro innocente corpicino, dall'aria oppure dal passato dei genitori -, ora debbono schifarsi di loro mentre li guardano. Adesso si trovano qui insieme così numerose con la loro comune e terribile miseria: ed ecco, ora si trova tra loro una delle grandi signore. Viene a disturbare la loro piccola speranza, il loro giorno...

Una lunga, penetrante tosse rompe l'estenuante silenzio - tosse soffocata e 'tirata' con sofferenza - proviene circa dalla metà della lunga panca. La magra schiena della povera bambina si piega profondamente; singhiozza, la sua fronte s'arrossa e la saliva bianca schiuma tra le sottili labbra pronte a piangere. La dama improvvisamente scatta prestando attenzione, velocemente gira lo sguardo nella sala come se cercasse un appoggio tra i visi arrabbiati delle nemiche. Il lacché è appena ritornato. - Prego - si gira verso lui energicamente - quella bambina ha la pertosse. Si deve portare nella sala isolata delle malattie infettive.

Ci mancava proprio questo. La rabbia soffocata, irragionevole, appassionata non si frena più. Saltano di scatto, protestano ad alta voce, nello stesso tempo tre-quattro donne bestemmiano. La madre della piccola ammalata di pertosse è la più impaurita: ella ripete silenziosamente nel gran rumore che portandola là non avrebbe più la possibilità di essere visitata, mentre a casa la aspettano ancora altri quattro figli affamati. Le altre intorno a lei gridano dalla rabbia; davanti al lacché dalle minacciose, pesanti braccia si forma una falange.

- Ci mancherebbe altro! Ci siamo qua anche noi!

- Contagiosa - benedetto Dio! Quel trucco scolorito sul suo muso, quello è contagioso. E tutte quelle brutte malattie dei grandi signori. La sua marmocchietta forse è nata in un luogo migliore?...

Qua e là si erano sentite anche alcune volgarità nel convulso, infuriato delirio.

- Perché non vi abbiamo dato alcun fiorino - provocano il lacché; - anche voi eravate allattato da una madre come noi!

Il giovane, ex-soldato, dei dintorni di Pest, svevo d'origine, ha girato lo sguardo con perplessità. Un sentimento di solidarietà verso di loro si è mosso dentro di lui, le ha sentite più vicine. Avrebbe voluto far vedere a questa dama piena di pretese che qui comanda lui. - Ma purtroppo egli ha veramente ricevuto un fiorino...

- Prego, io non so..., io non ho sentito tossire. Il medico arriverà subito.

La dama non risponde, è scandalizzata, fa un cenno alla bambinaia. - Venga, Giuli, aspettiamo piuttosto nel corridoio. Copra bene la bambina!

Con veemenza apre la porta ed in questo momento cade quasi nelle braccia di un signore che la saluta con sorpresa e grande gioia. Poi egli osserva stupefatto il suo viso agitato.

- Che cosa succede, signora?!

Le offre la mano. Ella cerca di riprendersi davanti all'uomo di società, che è suo alleato e rifugio in questo momento. Ritornando in sé, prima con fare ancora agitato, poi con sempre più tranquillità, alla fine sorridendo, segnala l'accaduto non dandovi più grande importanza. Non accenna neanche al grande insulto, sottolinea piuttosto la irregolarità della bambina non isolata nonostante la sua malattia infettiva. E quelle là in un attimo sentono la superiorità di questi grandi signori, la loro impotenza, la loro situazione: sono venute qua a mendicare una visita gratuita, ed hanno osato... Ora spaventate si ritirano, con l'umiltà della loro povertà, chinando il capo guardano verso il pavimento. Dentro di loro non sanno neanche come poteva succedere tutto questo. Il signore sconosciuto con la fronte piena di rughe le osserva.

- Meschine! - dice in modo brusco e breve. - Parlerò con mio cognato. Così hanno gratitudine per lui.... Pietro!

Il ragazzo confuso chiedendo scusa si avvicina.

- Stai zitto! Porta quella bambina con la pertosse nella sala isolata, subito! È aperta la sala da pranzo?

- Sì, signore!

- Prego, signora, si accomodi. Aspetteremo là mio cognato. Egli viene subito, mi ha portato con la sua macchina fino alla clinica, ma doveva entrare per qualcosa. Oh, lei non sapeva della nostra parentela? Áron ha sposato mia sorella maggiore.

Egli ha parlato in modo elettrizzante, con gioia, si vedeva che gli era piaciuta l'occasione di poter fare un favore, di poter accennare al suo famoso parente e particolarmente di poter rimanere un po' in compagnia di questa bella conoscente nella cabina di vetro della sala da pranzo ben calda e profumata dall'odore dei fiori. Anche la donna ha già dimenticato la sua rabbia, le è piaciuta la situazione cambiata improvvisamente grazie alla sua presenza femminile. Si è liberata dai pensieri opprimenti della mezz'ora precedente che non si addicono alla sua personalità, lei è al di sopra di questi problemi. Adesso loro sono separati dalle altre. La loro alleanza è circondata dal piacevole ricordo di una serata dell'alta società e dall'eccitazione di un fine, piccolo flirt che li ha isolati dalla volgarità, dai fastidiosi umani e socialfilosofici pensieri. La bambinaia rappacificata prendendo in braccio la bimba si è seduta accanto al camino a gas che facilmente invita entrambe a sonnecchiare.

Invece là fuori, le donne dai volti profondamente umiliati si guardano l'un l'altra oppure osservano la porta su cui sosta qualche uomo ben alimentato e profumato. Poi altri due uomini di facili costumi si sono presentati ai loro occhi. Erano rimaste zitte per un po', poi la robusta signora con la gonna di color blu, alzato il suo grande pugno, rantola istericamente con gran odio in modo spaventoso la terribile maledizione:

- Io le auguro che sua figlia muoia entro quest'anno!

 

 

LÁSZLÓ NÉMETH
(1901-1975)

 

COLPA

(Frammento)

[...]

Dopo un più lungo silenzio gli sembrava sentire pronunciare il suo nome. Pensava che lo chiamassero per l'avanzo di carne di ieri. «Mangiàtela», pensò, e non rispose. Ma la voce era insitente. «Lajos! Il postino ha portato qualcosa.» Uscì barcollando alla luce. Teri stava là stendendo verso a lui la mano che stringeva una cartolina. Straordinariamente stavolta la sua faccia non era dura come negli ultimi giorni. Non aveva neanche riconosciuto la sua voce, appunto, perché era già da tanto tempo che non sentiva pronunciare il suo nome così con indulgenza. Lajos guardò prima lei, poi la cartolina, che ella gli offrì col braccio steso come se volesse tenerla lontano dal suo corpo. Oltre lei non c'era nessuno nella cucina, sul tavolo il frullino era posato accanto alla tagliapasta nel piccolo calderone di rame pieno di un liquido bianco. Prima due persone lavorarono qui. Lajos prese la cartolina. S'imbatté nella sua stessa calligrafia. «Come? Questa è la mia cartolina» - mormorò. Mentre la girava lesse le ultime parole. «Nella speranza di rivederti al più presto ti bacia il tuo fedele fratello, Lajos.» Dopo l'invio del denaro, come spiegazione, l'aveva scritta, per giustificarsi lui perché non era andato se stesso. Aveva spedito i soldi venerdì, la cartolina il mercoledì successivo. Aveva sbagliato l'indirizzo? Szeged, Clinica Ginecologia, si leggeva precisamente, come scriveva sua sorella. Guardando l'indirizzo mentre girava la cartolina s'accorse di una parola scritta tra il francobollo e la parola 'Marisa'. [...]

Allora loro lo sapevano già? Avevano letto quella parola e la proprietaria aveva interrotto di montare la panna perché non voleva essere testimone mentre lui apprendeva la notizia della morte. Quandò alzò il suo viso indeciso, titubante di sorriso, che preannunciava il pianto doloroso di Mariska, con lo sguardo cercò il dolce essere femminile che gli offriva la cartolina ritornata con la tenerezza della voce e del braccio di Teri. «Dammene ancora di più, sai, lei è morta, ora sono un orfano solo al mondo, non posso andarmene senza consolazione», supplicò in singhiozzo con le labbra tremanti. In questo singulto era presente anche il calcolo dell'amore d'un'ultima speranza, pieno di una compassione che dalla simpatia non si poteva avere. Ma Teri si trovava nuovamente dove c'era la pasta natalizia; ma ora le sue braccia in movimento e la faccia sottile sembravano più soavi delle altre volte, la speranza amorosa sotto un falso sentimento di lutto percepiva gli ostacoli meno duri. Nemmeno per sogno, lei non poteva sedersi accanto a lui sulla seggiola, e non poteva piangere piegando il capo accanto alla pasta ed aspettare le tenere carezze tra i suoi capelli delle deboli dita di Teri. «Che ne pensa, di che cosa è morta?» chiese Teri con tenerezza, sempre con lo sguardo verso la pasta. [...] «Trombosi...»

[...] «È interessante che sua madre sia morta durante il parto. No?» chiese Teri al ragazzo da un'infinita distanza. Lajos stava zitto per un po'. Finché Teri aveva da dirgli qualcosa, non bisognava interromperla: ma la ragazza non disse più niente, soltanto le sue bianche braccia erano in movimento nella pasta, egli si ritirò silenziosamente attraverso la porta aperta chiudendola silenziosamente per non disturbare l'umore più docile di Teri.

[...]

 

 

ISTVÁN ÖRKÉNY
(1912-1979)

 

ITALIA

Il direttore d'orchestra italiano, portata a termine l'esecuzione de «Il ballo in maschera», si immerse nella notte di Pest. Verso l'alba invitò al proprio tavolo una donna con cui aveva ballato a più riprese.

L'artista ospite - tramite l'interprete - la corteggiò per un po' poi mise la mano in tasca, estrasse il portafogli e, coprendolo con la mano, guardò l'interprete rimanendo in attesa.

«Cinquecento» 1) riferì quindi al direttore d'orchestra.

«Trecento» 2) ribatte' l'ospite cui la cifra era sembrata alta.

«Quattrocento» 3) propose alla fine l'interprete.

Qui l'accordo fu raggiunto.

Note.

1) , 2) , 3) In italiano nel testo originale.

 

 

C'È SEMPRE SPERANZA

«Una cripta non è certo a buon mercato» informò l'impiegato. «Meno che mai sul viale principale.»

«Non occorre che sia sul viale principale» disse l'interessato. «L'importante è che sia di calcestruzzo.»

«Di calcestruzzo?» disse perplesso l'impiegato. «È inconsueto, prego. Però è fattibile.»

Mise da parte il listino prezzi. Fece un calcolo veloce su un foglio del blocco note; la cripta di calcestruzzo, senza lapide, aveva un costo alquanto elevato anche sul viale secondario. L'interessato aveva comunque dichiarato che non sarebbe stato quello il guaio.

Questi si mordicchiò le unghie. Rifletté per un istante.

«Poi - disse - ci vuole dentro anche un tubo.»

«Un tubo per cosa?» chiese l'impiegato vestito di nero.

«Non so neanch'io. Tipo una ciminiera. Tipo un camino. Come sulle navi. O come quelli che si trovano nelle cantine vinicole.»

L'ingegnere chiamato sul posto dall'impiegato fu alquanto lento nel comprendere. Si fece spiegare la questione per ben due volte ed anche dopo si limitò ad un borbottio.

«Se mi è permesso chiederlo - domandò - di che materiale dovrebbe essere questo tubo?»

«Questo lo dovrebbe sapere lei» disse l'interessato perdendo un po' la pazienza.

«Va bene d'ardesia? - chiese l'ingegnere - O piuttosto di mattoni? O più semplicemente di metallo?»

«Lei cosa consiglia?» chiese l'interessato.

«Non m'intendo proprio di tutto» disse l'ingegnere. «Ma la più adatta sarebbe l'ardesia.»

«Vada per l'ardesia.» rispose l'interessato e guardò pensoso l'ingegnere lento di comprendonio.

«Poi - continuò - bisognerebbe portarvi dentro la luce elettrica.»

«La luce elettrica?» lo guardarono entrambi sorpresi. «A che serve là dentro la luce elettrica?»

«Che domanda !» disse seccato l'interessato. «Ma perché non sia buio.»

 


NOTE BIOGRAFICHE DELLA TRADUTTRICE

Melinda Tamás-Tarr Bonani nata il 12.12.1953 (Ungheria), è docente di Lingua Ungherese, Letteratura e di Storia di professione originale (laureata in Magistero in Lingua Ungherese - Letteratura Ungherese/Mondiale e di Storia Ungherese/Universale dalla Preistoria al presente il 16 giugno 1978 in Ungheria), giornalista pubblicista (iscritta all'Ordine dei Giornalisti di Bologna), traduttrice/interprete/consulente giudiziario. Subito dopo la maturità liceale del Liceo Cattolico «Svetits» di Debrecen ha lavorato come impiegata (con contratto a tempo determinato: dall'1 settembre 1972 al 31 agosto 1973) presso l'Ufficio Economato del Tribunale Regionale di Veszprém (H). Poi, subito dopo la laurea ha continuato come insegnante (titolare della cattedra della Lingua Ungherese - Letteratura - Storia fino all'1 ottobre 1983 presso la Pubblica Istruzione Ungherese/Scuola Media Inferiore di Veszprém: dall'1 settembre 1978 all'1 ottobre 1983) per dedicarsi poi ai vari studi in Italia (in ordine cronologico: giuridici, letterari, pianistici, informatici) ed infine al giornalismo. Grazie alla posizione ottenuta al Concorso Nazionale "Cercasi Giornalisti", bandito dall'Ordine dei Giornalisti Ungheresi di Budapest (MÚOSZ-segnalazione, 1977), ha potuto svolgere anche quest'attività retribuita - a tempo determinato (1977) -, poi fino all'inizio degli anni '90 ha occasionalmente pubblicato vari articoli - dietro compenso - presso il quotidiano regionale ungherese «Napló» di Veszprém. Ha anche fatto sentire la sua voce - sempre occasionalmente, ma gratuitamente - nelle pagine degli altri quotidiani e periodici ungheresi ed italiani. Dal 1983 svolge l'attività di traduttore/interprete (ungherese/italiano) e dal 1989 scrive testi letterari e giornalistici in lingua italiana. Dal 1990 al 1994 faceva parte (soprano) dell'Accademia Corale Veneziani di Ferrara per la quale organizzò una tournée in Ungheria (Eger, Miskolc, Bélapátfalva: 10-15 settembre 1993).

Nell'anno accademico 1996/97 (marzo-maggio) ha insegnato volontariamente presso la Scuola Elementare «G. Leopardi» di Ferrara, nell'ambito del progetto «La piccola biblioteca cresce» - biblioteca realizzata dai genitori - in occasione della «Scuola Aperta»: ha impartito lezioni d'italiano nelle classi 1-5 col titolo «La fantasia della grammatica» arricchite di recitazioni con travestimenti palcoscenici, di giochi di burattini, di suoni di cetra, di canti, di giochi drammatizzati, di varie attività creative (giochi di indovinello, disegni, vari giochi didattici), etc., realizzati esclusivamente da lei concludendo il periodo d'insegnamento con una lezione «a vetrina» in cui erano presenti anche i genitori degli alunni della scuola.

Studi complessivi: pianoforte con la guida dei maestri Hajek Stefánia ed Almási Gyula (1964-1968), tedesco con la guida della professoressa Léja Eta (1965/66), corso di tedesco presso il TIT con la guida del professor Kemény Géza (1966/68), pianoforte con la guida della maestra di Mihályfi Károlyné (1972/73), solfeggio con la guida di Nyitrai Tamás (1972/73), corso di disegno tecnico con la guida del professor Zsíros László all'Università di Veszprém (1972/73); economia politica, psicologia (psicologia generale e psicologia genetica), teoria della musica, impostazione vocale, canto, solfeggio, conduzione del coro, pianoforte, introduzione alle analisi letterarie, culto della lingua e la tecnica della pronuncia,, lingua ungherese descrittiva, dialetti ungheresi odierni, linguistica generale, la metodologia della lingua ungherese, la teoria dell'insegnamento della lingua ungherese, la pratica dell'insegnamento della lingua ungherese, storia della letteratura, letteratura ungherese, letteratura mondiale, la metodologia della letteratura, la teoria dell'insegnamento della letteratura, la pratica dell'insegnamento della letteratura, storia ungherese (dagli inizi ai giorni presenti), la metodologia della storia, la teoria dell'insegnamento della storia, la pratica dell'insegnamento della storia, le cognizioni del diritto privato e del diritto pubblico, la rivoluzione tecnica scientifica, economia politica, socialismo scientifico, psicologia generale, le teorie della pedagogia, la storia della pedagogia, didattica, etica, politica dell'insegnamento, estetica, logica, estetica del film, lingua inglese, lingua russa, igiene, seminario di sincronizzazione /strumenti tecnici, educazione civica, educazione fisica presso la Parauniversità per Formazione dei Professori di Pécs (1973/74, 1974-1978), corso di lingua italiana presso la Scuola Interpreti - SI di Ferrara (1985), Corso di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Ferrara (1986-88), Licenza di teoria di musica, solfeggio, dettato per strumento del Conservatorio di Musica di Ferrara (1992), corso di Lettere/Filosofia (Lingue e Letterature Europee Moderne - Lingua e Letteratura Ungherese, Lingua e Letteratura Russa, Letteratura Italiana, Storia di Musica, Storia dell'Arte) dell'Università degli Studi di Bologna (1993-95), studi di pianoforte con la guida del maestro Edgardo Orsatti (1986-1997).

Dal 5 dicembre 1983 vive a Ferrara dove si occupa della direzione ed edizione del periodico bimestrale di cultura «OSSERVATORIO LETTERARIO FERRARA E L'ALTROVE» - detto brevemente «O.L.F.A.» - e di occasionali traduzioni giudiziarie e letterarie, di interpretariato e lezioni private. Tale rivista è stata fondata da lei per valorizzare autori esordienti senza scopo di lucro e viene finanziata esclusivamente dagli 'abbonamenti', dalle iniziative letterarie e dalle pubblicazioni delle antologie e dei quaderni letterari dei Premi/Concorsi come rimborso spese di realizzazione. Questa testata, il 31 ottobre 1998, è stata scelta come «UNA DELLE MILLE MIGLIORI IDEE IMPRENDITORIALI» dall'iniziativa promossa dalla Banca Popolare di Milano e dal Corriere della Sera - Corriere Lavoro. Può vantare la collaborazione di alcuni illustri personaggi, basta citare soltanto i nomi della Prof.ssa Vittoria Corti dell'Università di Firenze; il geologo e poeta Renzo Ferri, (bibliotecario all'Università di Ferrara, stretto collaboratore dell'O.L.F.A.); Prof. Oliver Friggieri, poeta e capo del Dipartimento della Letteratura Maltese dell'Università di Malta; il giornalista Angelo Giubelli (docente d'italiano, direttore responsabile di questa rivista, autore di molti libri sulla vita di Padre Pio); lo scienziato ingegnere chimico e filologo poliglotta ungherese, Prof. Gyula Paczolay PHD, il poeta, scrittore, saggista, commediografo e traduttore dei classici greci e latini Marco Pennone, docente d'italiano - latino - filosofia in scuole superiori di Savona; Prof. Peter Russell, di grande cultura classica è un grande poeta inglese del nostro tempo, esule volontario in Italia, ex-titolare di cattedre presso Università di Canada, Stati Uniti, Iran, Firenze, Venezia; lo scrittore argentino, Prof. Fernando Sorrentino di Buenos Aires (Argentina) corrispondente dell'«Osservatorio Letterario»; la Dr.ssa Gabriella Németh, l'italianista ungherese, corrispondente dell'«Osservatorio Letterario»: tramite lei e la Sig.ra Karakas Péterné, caporeparto della Sezione dell'Ampliamento del Gruppo Estero della Biblioteca Nazionale Ungherese «Széchenyi» di Budapest (OSZK), nel mese di Luglio e nel mese di dicembre 2000 con la MEK (Biblioteca Elettronica Ungherese, un Dipartimento dell'OSZK) sono nate due nuove, ufficiali, reciproche collaborazioni culturali tra l'Osservatorio Letterario e la più grande biblioteca dell'Ungheria e un suo dipartimento dipendente; e tanti altri validi letterati ed artisti. Oltre ai fascicoli del periodico ha finora edito e curato 11 antologie dei concorsi e premi letterari banditi dalla sua testata, 30 quaderni letterari di vari autori.

Ha cominciato a scrivere in italiano nel 1989 con l'intento di migliorare il suo italiano. Dal 1993 - l'anno del suo 1° posto al Premio Dante per l'analisi critica letteraria dalla Società Dante Alighieri - ha partecipato a 31 concorsi letterari e artistici italiani ed internazionali - con racconti, saggi, articoli giornalistici, poesie, fotografie, illustrazioni/grafiche - collezionando cinque primi premi, quattro secondi, otto terzi, cinque quarti, tre quinti, quattro menzioni, due segnalazioni e molti altri riconoscimenti. Dal 1989 è presente con i suoi lavori in 21 antologie e con interventi/lettere occasionali ne «Il Resto del Carlino», «La Nuova Ferrara», «Corriere della Sera», «Famiglia Cristiana» ed altri piccoli periodici oltre la sua rivista.

Ha inoltre pubblicato tre opere: «Girovagando nell'Impero di Discorsopolis» (Taurus Editore, 1996), una fiaba didattica, inconsueta per far conoscere nozioni grammaticali, che di solito risultano noiose da studiare, i 2 volumi «Da padre a figlio», fiabe e leggende magiare popolari (C.Q.L.N., 1997), ed «I signori del Danubio» (saggistica) articoli dell'Osservatorio Letterario pubblicati tra 1997-2000 (Edizione O.L.F.A, 2000) opera concorrente al prestigioso premio giornalistico «PREMIO ESTENSE - l'Aquila d'oro 2000».

Oltre al riconoscimento della Radio Rai 1 recentemente ha ottenuto un altro qualificato apprezzamento dall'International Biographical Centre Cambridge del 23 marzo 2001, come riconoscimento meritatissimo per la sua poliedrica cultura e per la sua attività incessante: l'inclusione tra i 2000 maggiori pensatori ed eruditi del 21° secolo nell'enciclopedia biografica internazionale più grande del mondo «2000 Outstanding Scholars of the 21st Century» («2000 eccezionali letterati del XXI secolo»).


 

I N D I C E

PREFAZIONE

L I R I C A

Poeti dall'inizio all'Ottocento

ANONIMO (intorno 1150):
Orazione funebre

JANUS PANNONIUS (1434-1472)
Laus Guarini/Lode a Guarini
De eodem/Dello stesso
Ad Leonellum ferrariae principem...
Laus Pannonie/Lode a Pannonia

JÁNOS ARANY: (1817-1882):
Lascio il liuto

SÁNDOR PETŐFI (1823-1849):
Libertà amore!
Se albero fossi
L'eroe Giovanni

IMRE MADÁCH (1823-1864):
La tragedia dell'uomo

 

Poeti dall'Ottocento fino ai giorni d'oggi

ENDRE ADY (1877-1919):
Una canzoncina natalizia
I Messia magiari

MIHÁLY BABITS (1883-1941):
Nuovi Leonini
Paese nero

ENDRE DÉKÁNY (1926):
Alba di Pasqua

ANNA FAZEKAS (?):
Primavera

ATTILA JÓZSEF (1905-1937):
Inverno
Non io grido
O Europa, Mamma
Saluto a Thomas Mann

GYULA JUHÁSZ (1883-1937):
Ricordo

GÉZA KEMÉNY (1937):
Speranza, prepara il nido!...

MIKLÓS RADNÓTI (1909-1944):
O, vecchie prigioni

SÁNDOR REMÉNYIK (1890-1941):
Barcaccia

GYÖRGY RÓNAY (1913-1973):
Il vecchio poeta

MELINDA TAMÁS-TARR (1953):
Apolide
Oh, Ferrara

ÁBEL TOLNAI BÍRÓ (1928):
Quando l'arco si spezza
Ave Maria dei Magiari
I due momenti della gratitudine

ÁRPÁD TÓTH (1836-1928):
Nuvola d'oro
Nell'ora infruttuosa

GYÖRGY VÉGH (?):
Perché non c'è fiore nero?

SÁNDOR WEÖRES (1913-1989):
Se il mondo merlo fosse

 

N A R R A T I V A

ANNA JÓKAI (1932):
L'angelo di Reims

MÓR JÓKAI (1825-1904):
Leggende accanto al camino III

MARGIT KAFFKA (1830-1918):
Signore

LÁSZLÓ NÉMETH (1901-1975):
Colpa (frammento)

ISTVÁN ÖRKÉNY (1912-1979):
Italia
C'è sempre speranza


NOTE BIOGRAFICHE DELLA TRADUTTRICE


© Copertina: Melinda Tamás-Tarr Bonani


 

 

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

Printed in Italy

Finito di stampare nel mese di marzo 2001

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