Q U A D E R N I   L E T T E R A R I

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Versione  digitale della pubblicazione (manoscritto) stampata nel 1997.
Versione riveduta ed ampliata con la prefazione del Prof. Marco Pennone
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DA PADRE A FIGLIO

Fiabe e leggende popolari magiare

Introduzione, presentazione, illustrazioni di

MELINDA TAMÁS-TARR

Prefazione di Marco Pennone

Edizione riveduta

EDIZIONE O.L.F.A.

FERRARA 1997/2002/2003


I N D I C E

INTRODUZIONE
PRESENTAZIONE
PREFAZIONE

PARTE PRIMA:
FIABE POPOLARI MAGIARE

La guardiana delle oche che diventava regina
Il figlio del re Barbaverde
I tre desideri
Il vecchio pescatore e la moglie che volle troppo
Matyi delle oche
Ilona Fatabella ed Árgyélus
Il pecoraio con gli occhi a stella
Il povero stivalaio ed il Revento
La ragazza pigra
Palkó Curioso

PARTE SECONDA:
LEGGENDE POPOLARI UNGHERESI

Il principe Hunor scaglia la freccia contro il fuoco
Il cervo miracoloso
La fossa di Csörsz
Il patto di sangue
La conquista della patria
La principessa Sarolta
La corona ungherese
Il re Mátyás venne ospitato
Il re Mátyás ed il maestro-cantore
Gli zingari che diedero alloggio al re Mátyás
A Buda sola una volta c’era il mercato di cani
Il re dei contadini
L’assedio di Eger
L’uomo nero


INTRODUZIONE

Che cosa è la fiaba?  La «Nuovissima Enciclopedia Generale De Agostini» così la definisce: la fiaba è una «narrazione popolare nella quale predominano il meraviglioso e il fantastico e che ha per protagonisti esseri sovrannaturali (fate, streghe, maghi, orchi, ecc.). I caratteri essenziali della fiaba sono: un notevole sviluppo narrativo, la mancanza di una chiara intenzione morale e satirica (e per questo aspetto si differenzia dalla favola, con la quale ha in comune l’etimologia, dal latino fabula, e soprattutto la sua popolarità)...» Ma talvolta si usa favola per fiaba. Prima di approfondire la questione della fiaba, fermiamoci un attimo per riguardare l’origine ed il significato della parola «favola».

Favola deriva dal latino fabula (come si legge anche nella definizione dell’enciclopedia suddetta), che a sua volta viene dal verbo fari (dire, raccontare). Dapprima, presso i Romani, la parola indicò una narrazione di fatti inventati, rappresentati sulla scena. In seguito si chiamarono fabulae racconti brevi e fantastici, i cui protagonisti erano spesso animali (talvolta anche uomini e piante), e che avevano lo scopo di suggerire insegnamenti morali. Un racconto di questo tipo, breve e scritto con l’intento di insegnare qualcosa, si chiama anche «apologo».

Nel Medioevo fabula si abbreviò in faula, da cui nacque il vocabolo fola nel duplice significato di fantasticheria e falsa notizia, frottola. Da favola deriva il termine favolista che significa (tutti lo sappiamo) scrittore, narratore di favole. La favola, dunque, è tanto antica quanto la storia dell’uomo; e dell’uomo costituisce uno specchio mirabile, ponendone in luce  vizi e virtù. Attraverso le favole possiamo ricostruire una galleria di tipi e di difetti umani, e imparando a conoscere gli altri, possiamo anche scoprire certe debolezze, che non sospettavamo, proprio dentro noi stessi...

Anche il termine fiaba deriva dal latino fabula, divenuto flaba nel latino parlato e successivamente fiaba.  Quindi favola e fiaba hanno la stessa origine, solo che per fiaba si intende un racconto che narra vicende fantastiche con personaggi creati dalla fantasia, dotati tutti di straordinari poteri, capaci di fare incantesimi, prodigi e magie di ogni genere. Anche nelle fiabe, come nelle favole, compaiono spesso animali parlanti, ma quasi sempre sono protagonisti donne ed uomini, principesse e principi, trasformati in animali per qualche malvagio incantesimo. Ma essi (ad esempio per la costanza di una fanciulla innamorata o il coraggio di un giovane ardimentoso) finiscono per avere la vittoria sui malvagi. E tutto si risolve con la punizione dei cattivi seguita naturalmente da matrimoni, grandi festeggiamenti e pranzi che non finiscono più.

Come sono nate le fiabe? Ecco un esempio che riguarda le fiabe popolari ungheresi: in tempi lontani, quando non c’erano ancora le lampade elettriche, nel filatoio il fuoco del camino faceva un po’ di luce; e lì, le lavoratrici si riunivano;   mentre lavoravano qualcuna  tra loro raccontava qualche fiaba. Era il loro divertimento raccontare ed ascoltare le fiabe durante il faticoso lavoro quotidiano. In esse i protagonisti ottengono sempre un notevole miglioramento di vita: ad esempio le povere ragazze diventano principesse, regine; pure i maschi poveri, manifestano i loro desideri, i loro sogni di miglioramento nella vita quotidiana. I poveri buoni sempre vincono contro i cattivi ricchi. Le favole e le leggende popolari, quindi, sono nate come racconti orali e sono state tramandate. Non conoscendo precisamente le loro autrici ed autori, si definiscono «popolari». Poi, per fortuna, alcuni scrittori le hanno raccolte e trascritte per salvarle e ricordare per sempre. Grazie a loro ora le conosciamo e possiamo leggere nei libri le fiabe da raccontare ai nostri figli.

Come è la struttura della fiaba? Ricorriamo all’aiuto di Vladimir Propp, studioso russo, che alle fiabe e alla loro struttura dedicò tre delle sue opere fondamentali, divenute famose nel mondo.

Secondo Propp, tanto tempo fa accadeva qualcosa che era molto simile a ciò che viene narrato nelle favole: nelle società primitive i ragazzi prima di essere ammessi a far parte del mondo degli adulti venivano sottoposti a difficili prove (proprio come i protagonisti delle fiabe che prima di sposarsi devono cimentarsi in molte straordinarie imprese). I giovani erano obbligati a partecipare  alle cerimonie religiose e sociali, i cosiddetti riti iniziatici o di iniziazione,  durante il periodo di prova e di preparazione alla loro vita di adulti.

Propp oltre alle sue ricerche sulle radici storiche della fiaba, ha cercato anche di individuare gli elementi costanti, stabili, che ricorrono in ogni racconto fiabesco e ne costituiscono, per così dire, l’ossatura portante o struttura. Tali elementi sono le funzioni dei personaggi, che nel sistema di Propp sono trentuno: allontanamento, divieto, infrazione, investigazione, delazione, tranello, connivenza, danneggiamento (o mancanza), mediazione, consenso dell’eroe, partenza dell’eroe, l’eroe messo alla prova dal donatore, reazione dell’eroe, riconoscimento dell’eroe, smascheramento del falso eroe o dell’antagonista, trasfigurazione dell’eroe, punizione dell’antagonista, nozze dell’eroe, etc., tanto per citare alcune delle più famose.

Naturalmente non tutte compaiono necessariamente in ogni fiaba: nella successione obbligatoria avvengono dei salti, delle aggregazioni e sintesi, che però non contraddicono la linea generale. Ogni «funzione» può comprendere il suo contrario: il «divieto» può essere rappresentato da un «ordine» positivo.

Oltre la teoria antropologica sono state formulate altre teorie circa l’origine delle fiabe, considerate avanzi di antiche mitologie (teoria mitica) o, più precisamente, dei miti solari dell’India (teoria indianista), oppure ricondotte ai sogni (teoria psicanalitica).

I primi e più cospicui esempi di raccolte di fiabe letterariamente rielaborate vengono dall’Oriente («Pañcatantra», «Mille e una notte»). In Occidente, invece, la fiaba fu del tutto inesistente come genere autonomo sia presso i Greci che presso i Romani. Nel medioevo fu oggetto di trasmissione orale, finché, a partire dal quattrocento, acquistò il massimo rilievo nella letteratura europea, attraverso le fiabe drammatiche di Shakespeare («Sogno d’una notte di mezza estate», «La tempesta») e più tardi di C. Gozzi, di F. Fouqué, di A. von Platen, di H. Ch. Andersen, e così via, mentre nella sua normale forma narrativa veniva presentata da G. Basile e portata alla migliore elaborazione artistica da Ch. Perrault. Ma fu merito precipuo dei fratelli Grimm quello di sottolineare l’importanza dell’origine popolare della fiaba e di promuovere raccolte sistematiche di fiabe secondo precisi criteri di fedeltà al dettato originale.

M.T.T.B.


PRESENTAZIONE

Il patrimonio delle fiabe popolari ungheresi è immenso: il solo elenco dei suoi tipi riempie due grossi volumi. Come tutti i ragazzi ungheresi, anch’io sono cresciuta con queste fiabe raccontate ogni sera dai miei genitori, poi conosciute  anche nei banchi di scuola.

Nella didattica della letteratura ungherese e nella pedagogia, già a partire dalla scuola materna si sottolinea l’importanza della conoscenza delle fiabe nazionali. Durante l’educazione e l’insegnamento della madrelingua, il linguaggio di queste opere popolari dà un forte contributo allo sviluppo estetico del linguaggio quotidiano dei ragazzi.

Nelle scuole pubbliche ungheresi le favole, leggende, ballate popolari occupano un posto di rilievo nella didattica delle materie letterarie.

La raccolta consapevole e sistematica di queste opere iniziò dal secolo scorso. Fino a quei tempi esse erano trasmesse soltanto oralmente, la gente semplice le raccontava mentre si riuniva a lavorare in gruppo. Della stessa favola o leggenda esistono diverse versioni: vi erano dei narratori che secondo la loro fantasia hanno tolto oppure hanno aggiunto eventi alla trama di base, addirittura l’hanno rielaborata, modificata.

Questo volume lo dedico a mia figlia, Alessandra, con la speranza che, avvicinandosi al mondo fiabesco magiaro, si interesserà sempre di più anche della civiltà della patria d’origine materna, che anche a lei non può essere estranea perché oltre all’identità italiana ha anche quella ungherese. Ella non deve mai dimenticare questo fatto importante e ha l'obbligo d'essere consapevole ed orgogliosa d'avere una doppia responsabilità civica che certo sarà per lei un vantaggio; ciò le arricchirà senz'altro la personalità, la visione di vita, la sua mentalità...

Le favole e le leggende sono da me rielaborate in lingua italiana; ho ritenuto opportuno lasciare i nomi ungheresi in forma originale e nelle note ho segnalato i nomi corrispondenti in italiano.

Oltre a mia figlia, che ha oggi quasi dodici anni, offro con un grande affetto questa raccolta a tutte le persone, dai ragazzi agli adulti, a cui piacciono le favole e da esse traggono volentieri i messaggi contenuti...

Ferrara, Luglio 1997e Luglio 2002

Melinda Tamás-Tarr
Prof.ssa Lingua e Letteratura Ungherese - Storia
Giornalista Pubblicista

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Bibliografia: Il nuovo leggere, Zanichelli, Bologna 1992;  Nuovissima Enciclopedia Generale De Agostini; Gianni Rodari: Grammatica della fantasia, Torino, Einaudi, 1973


PREFAZIONE

La fiaba popolare può essere definita "la madre  di tutti i racconti": nasce infatti prima della scrittura, come racconto orale tramandato di generazione in generazione.

Nasce insieme alla leggenda (che ha un sostrato storico), al mito (che ha un funzione prettamente religioso), alla saga (racconto epico delle antiche letterature nordiche che ha per lo più come protagoniste famiglie eminenti), al proverbio (che raccoglie e simboleggia la saggezza di un popolo), ma è più "potente" di tutti questi perché riesce ad assumere aspetti sempre diversi ripetendo e variando i "motivi del meraviglioso" (S. Thompson), che donano alla fiaba la sua "proprietà più segreta" (I. Calvino).1

Inoltre, come disse Kafka nelle "Conversazioni con Gustav Janouch", "tutte le fiabe sono uscite dalle profondità del sangue e della paura", quindi la loro potenza suggestiva è talmente alta che ne assicura nel tempo, modulata dalle varie versioni orali, l'originaria forte emozione, che ha l'essenziale funzione di preparare il bambino all'impatto con la vita, in analogia con i riti d'iniziazione ancor oggi praticati presso certe culture cosiddette "primitive".

Ma per assolvere a questo compito la fiaba dev'essere in primis lineare, semplice; illuminante è a questo proposito un'osservazione del grande psichiatra per l'infanzia Bruno Bettelheim: "Le fiabe non potrebbero esercitare il loro impatto psicologico se non fossero in primo luogo e soprattutto opere d'arte totalmente comprensibili per il bambino, come nessun'altra forma d'arte...". E prosegue acutamente lo studioso: "Il loro significato più profondo è diverso per ciascuna persona, e diverso per la stessa persona in diversi momenti della sua vita". Non solo dunque nei fanciulli, ma anche negli adulti le fiabe possono produrre il grande piacere dell'ansia affrontata e dominata con successo.

La fiaba popolare è altresì detta "tradizionale" perché chi narra non vuol proporre qualcosa di nuovo e personale, ma trasmettere ciò che ha ricevuto  da altri  e che proviene  da tempi remoti:  da questa lontananza acquista autorità.

Le fiabe permettono di "affrontare in maniera esemplare il problema della circolazione culturale delle forme letterarie, dall'oralità alla scrittura e, viceversa, dalla scrittura all'oralità (C. Lavinio). Storie narrate da fonti orali anonime o illetterate possono essere infatti raccolte da grandi autori (es. i fratelli Grimm o I. Calvino), mentre fiabe letterarie possono passare poi alla tradizione orale e popolare, perdendo via via i legami col testo scritto (es. alcune fiabe di Andersen).

Le fiabe, orali o scritte, hanno una struttura rigida: ruolo dei personaggi e sviluppo dell'intreccio si ripetono secondo schemi ricorrenti, acutamente analizzati dal Propp che individuò le ormai celebri trentuno "funzioni" che portano il suo nome.

All'inizio, nel copro e nel finale (che raramente, al contrario della favola, contiene una morale esplicita) è frequente l'uso di formule fisse ("C'era una volta...", "E vissero tutti felici e contenti"), proverbi, modi di dire, rime e filastrocche che hanno lo scopo di far ricordare meglio la fiaba sia al narratore che all'ascoltatore.

Le sequenze narrative sono organizzate per lo più secondo un ordine cronologico; inoltre vi sono frequenti sequenze dialogiche e descrittive.

Occorre leggere in modo non superficiale il testo narrativo- fantastico, così che dal gioco dei personaggi e dallo sviluppo delle vicende sia possibile comprendere i valori della civiltà d'origine delle fiabe, valori  spesso collegati  al  mondo contadino, e metterli a confronto con quelli di oggi2.

Certamente i lettori conosceranno già molte fiabe, sentite raccontare o lette nella fanciullezza e oltre: la "Mille e una notte", Perrault, i fratelli Grimm, Andersen, Afanasjev, Basile, Calvino... Queste raccolte  raccolte  da  Melinda  Tamás-Tarr   dalla tradizione  popolare della sua Patri d'origine, l'Ungheria, hanno il pregio della novità (anche se un paio di esse, "La guardiana delle oche che divenne regina" e "I tre desideri" le possiamo ritrovare, in differenti versioni, in altri Paesi) e vanno apprezzate per quanto hanno di fantastico, di interessante, di originale.

Vanno lette autonomamente: se poi, da soli, approderete a qualche conclusione di carattere morale o a qualche salutare riflessione, tanto meglio; ma prima di tutto leggetele e fatele leggere ai vostri bambini, perché, come tutte le altre fiabe del mondo, hanno soprattutto la funzione di "divertire", nel senso etimologico di "distogliere" la mente dalle preoccupazioni della frenetica e superficiale vita quotidiana in cui siamo immersi. E Dio sa quanto bisogno oggi ci sia di un sano e costruttivo "relax".

Notevole è la differenza tra le fiabe, racconti di fatti meravigliosi e fantastici in cui si trovano come protagonisti maghi, fate, orchi, streghe, personaggi umili accanto a re, regine, principi e principesse, e le leggende (la cui etimologia risale al gerundivo del verbo latino legěre, letteralmente vuol dire "cose da leggere", "che devono essere lette"), narrazioni di fatti in cui l'elemento storico è mescolato con l'elemento fantastico, meraviglioso, talora con intenti educativi o religiosi, per spiegare l'origine di una città, di un'usanza, di un culto, talora come mezzo per esaltare e tramandare gloriose imprese delle età passate e la fama dei loro protagonisti, celebrando altresì il popolo cui essi appartengono3.

E il popolo ungherese - dal quale Melinda Tamás-Tarr  narra nella seconda parte del presente volume alcune delle più belle leggende - è particolarmente ricco, come tutti i popoli del centro e dell'est europeo, di racconti in cui verità storica ed elementi fantastici, elaborati e arricchiti e variati da generazioni di narratori, si alternano e si fondono in un suggestivo, ricco, indissolubile intreccio.

In conclusione, queste fiabe e leggende popolari magiare costituiscono una lettura utilissima vuoi per alimentare la fantasia di bambini e di adulti, vuoi per apprendere cose nuove sul popolo d'origine della nostra brava Autrice.

Savona, Gennaio 2000

MARCO PENNONE
Professore d'Italiano e Latino

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1 Queste e le successive citazioni (tranne quella di F. Kafka) sono tratte da AA. VV., Le vie del meraviglioso. Fiabe dal mondo, Loescher Editore, Torino, 1996, p. VIII e segg. Di questo ottimo volume per la scuola media ci si è avvalsi per questa prefazione.

2 Cfr. AA. VV. «Progetto Lettura» (Antologia per la scuola media), Guida per l'insegnante, La Nuova Italia, Firenze, 1985, p. 34.

3 Cfr. A. VERRA-F. POLLO, «Dialogo aperto» Antologia italiana per la scuola media, Paravia, Torino, 1966, vol. I, pp. 97-98.


P a r t e   p r i m a

FIABE POPOLARI UNGHERESI


LA GUARDIANA DELLE OCHE CHE DIVENTÒ REGINA

Dove c'era, dove non c'era; Dov'era, dove non era, c'era una volta in questo mondo un uomo povero con moglie e tre figlie. Un giorno quest’uomo si preparò per andare al mercato. Voleva portare un regalo alle figlie, perciò le chiamò e chiese loro:

- Figlie mie, quanto mi volete bene?

La prima disse:

- Voglio tanto bene a lei quanto la gente desidera i più bei vestiti in vendita al mercato!

La seconda così rispose:

- Voglio tanto bene a lei quanto la gente ambisce avere un vestito di diamanti. Me lo compra, papà?

Poi si rivolse alla terza:

- E tu quanto mi vuoi bene, mia piccola figlia?

- Caro papà - rispose la ragazza più piccola -,  voglio tanto bene a lei quanto gli uomini amano il sale nel brodo!

- Come?! Accipicchia! Come osi dirmi ciò? Cosa mi consideri? Io valgo per te così poco? Vattene via subito, non ti voglio più! - Il padre era molto arrabbiato perché questa sua figlia lo valutava tanto scarsamente.

E adesso? Dove avrebbe potuto andare? Era cacciata da casa soltanto per queste parole. La povera ragazza non poté fare diversamente: raccolse le sue poche cose e se ne andò, ma poverina non sapeva in quale direzione dirigersi. S’incamminò senza alcuna mèta. Strada facendo, arrivò vicino ad una fattoria, ma non conosceva il suo proprietario. Si informò qua e là, così scoprì che essa apparteneva ad un re molto ricco. Subito si presentò e raccontò la sua storia ed il suo desiderio di trovare un lavoro per mantenersi. Lei avrebbe accettato qualsiasi lavoro!  La gente della fattoria ebbe gran compassione per la ragazza che era vestita con un abito di pelo stracciato. La assunsero come guardiana delle oche.

Rimase qui per molto tempo in gran povertà. Per mangiare qualcosa, andava alla cucina per ricevere gli avanzi, finché un giorno il cuoco le gridò:

- Vattene via! Sei sempre tra i piedi! Se di nuovo cadrà nel cibo qualche robaccia dal tuo vestito farò una brutta fine! Mi potrebbero anche impiccare! Vattene immediatamente!

La povera ragazza uscì. Quando arrivò di nuovo nel cortile vide che  la finestra del giovane re era aperta.

- Dove va il giovane re? - chiese vedendo che egli si stava vestendo.

- Perché me lo chiedi? Vado dove mi pare. Andrò al ballo stasera. Via dalla mia finestra! - e lanciò verso la ragazza il suo asciugamano.

La povera ragazza ritornò al ripostiglio delle oche, lì dormiva da quando era stata assunta. Prese dalla tasca gli avanzi che aveva ricevuto in cucina ed iniziò a cenare tra le lacrime. Mentre stava mangiando sentì un topino squittire. Poverino, anche lui aveva fame. La ragazza gli diede un pezzetto di pane. Quando il topino finì di mangiare portò con sé un guscio di noce e lo posò accanto alla ragazza e poi corse nel suo buco.

La ragazza guardò il guscio da vicino e scoprì che dentro c’era un vestito d’oro meraviglioso! Com'era felice! Applaudì dalla gioia! «Aspetta, giovane re, aspetta! Io arriverò prima di te al ballo!» Decise immediatamente di andare al ballo per divertirsi indossando questo splendido abito! Si lavò, si vestì e via, partì per il ballo.

Appena arrivò il giovane re, la invitò immediatamente a ballare. Egli non permise a nessuno di ballare con la ragazza. La ammirava estasiato e alla fine se ne innamorò. Volle sapere tutto di lei, da dove veniva, chi era? La bella ragazza rispose soltanto questo:

- Vengo dal Castellolanciasciugamano!

Si sentì di nuovo la musica, andarono ancora a ballare fino alla mattina. Alla fine il giovane re chiese permesso di accompagnarla a casa, ma lei non poteva accettare ed al momento opportuno sparì improvvisamente. Il giovane re la cercò ovunque senza alcun risultato.

La ragazza ritornò tra le oche, mise il vestito d’oro nel guscio della noce, indossò il suo vecchio straccio e ritornò ad essere la solita guardiana. Le custodì nel prato fino a mezzogiorno e non ricordò che c’era qualcuno che si disperava per lei!

Dopo  avere  sistemate  le  oche  nel loro recinto andò di nuovo in cucina. Il cuoco anche stavolta la sgridò offendendola. Era molto arrabbiato.

- Sparisci subito! Se cade qualche sporcizia nel cibo avrò grandi guai! - le diede qualcosa da mangiare e la cacciò via.

Tornando indietro si avvicinò alla finestra aperta del giovane re. Vide che egli si stava pettinando. Era evidente, si accingeva ad uscire!

- Dove andrà il giovane re? Vedo che si sta pettinando con gran cura! - disse la ragazza.

- Che te ne frega? Andrò dove mi pare! Andrò al ballo. Sparisci dalla mia finestra! - e lanciò contro di lei il suo pettine.

La ragazza ritornò al suo ripostiglio ed aspettò la sera. Quando ella ritenne opportuno prese stavolta un vestito d’argento dal guscio della noce e si preparò per il ballo.

Al suo arrivo vide che tutti si divertivano salvo il giovane re. Quando egli la vide con il suo abito d’argento cambiò umore e la invitò a ballare immediatamente. Si divertirono un mondo. Il giovane re chiese alla ragazza da dove proveniva, ma lei rispose soltanto così:

- Vengo dal Castellolanciapettine!

Pensò, pensò il giovane re dove poteva essere, ma non riuscì ad indovinarlo. Poi le chiese nuovamente di accompagnarla, ma la ragazza non glielo permise ed in un attimo scomparve come se non fosse mai stata là.

Tornò a casa, mise il vestito d’argento nel guscio di noce. Quando arrivò la luce, era già sul prato con le oche. Verso mezzogiorno andò di nuovo alla cucina, ma non si trattenne a lungo: appena ricevette qualcosa da mangiare si allontanò, ma si fermò nuovamente alla finestra del giovane re.

- Il giovane re si prepara di nuovo al ballo? - chiese.

- Senz’altro! Ma tu sei ancora così sfacciata da spiare nella mia finestra? - e lanciò lo specchio verso la ragazza.

«Va bene, va bene... - pensò dentro di sé -, non preoccuparti, io sarò prima di te al ballo!»

Aspettò la sera, stavolta indossò un vestito di diamanti e si recò al ballo prima del giovane re. Lei ballava già da un po' di tempo quando egli arrivò. Il giovane re non riuscì ad accettare che la ragazza amata ballasse con un altro. Avvicinò la coppia ed invitò la ragazza con rabbia a ballare con lui. Quella sera si divertirono di più delle serate precedenti. Anche stavolta volle sapere della sua provenienza, ma la ragazza rispose soltanto così:

- Vengo dal Castellolanciaspecchio!

- Dove può essere? Non lo so. Vicino a me c’è un uomo anziano che ha girato tutto il mondo, lo chiederò a lui, egli forse lo saprà!

Ma la ragazza non gli fornì l’informazione.

Il giovane re non riusciva più ad essere padrone dei suoi sentimenti, tolse dal dito il suo anello e lo regalò alla ragazza, le chiese di custodirlo bene perché l’avrebbe sposata. Lei glielo promise ma non aspettò che il giovane re di nuovo le chiedesse della sua provenienza. Sparì improvvisamente e lui non la trovò più. Era già nel suo ripostiglio con i suoi stracci.

Il  giovane  re  si disperò molto, era terribilmente arrabbiato. Tornato a casa divenne sempre più triste; nemmeno i suoi genitori riuscirono a farlo felice. Il suo cuore sembrava si spezzasse, quasi morì dal gran dolore. A mezzogiorno la ragazza si recò di nuovo alla cucina e mise l’anello ricevuto del giovane re in un gran piatto senza farsi vedere. Quando presero il cibo dal piatto, l’anello fece un tintinnio. Che cosa era? I famigliari del giovane re lo guardarono da vicino: era un anello! Chiamarono immediatamente il cuoco che provò una paura mortale. Che guaio!

- Chi c’era nella cucina? - gli chiesero.

Il cuoco ebbe paura di dire la verità e rispose: nessuno.

- Cuoco! Dimmi chi c’era nella cucina, altrimenti veramente t'impiccherò! Se confessi, non avrai alcun problema!

Non poté fare diversamente, il cuoco confessò la presenza della guardiana delle oche.

- Chiamatela immediatamente!

La ragazza si lavò ed indossò il vestito di diamanti ed entrò nella sala da pranzo della famiglia reale. Quando il giovane re la vide, non riuscì a calmarsi per la gioia! Questa era la ragazza con cui aveva ballato tutte le sere! L’abbracciò e baciò, poi comunicò di volerla sposare.

Si prepararono al matrimonio  ed  invitarono  anche il padre e le sorelle della giovane regina. Lei ordinò di preparare i cibi per suo padre separatamente e senza sale.

Arrivò il giorno del matrimonio. Durante il banchetto tutti mangiarono con grande appetito, soltanto il padre della giovane regina non toccò alcun piatto come se fosse stato triste. Gli domandarono perché non mangiasse, ma egli non rispose. Alla fine la giovane regina, sua figlia più piccola, gli chiese:

- Che succede caro papà? Perché non mangia? Forse non le piace il cibo? Non sia triste, è il giorno del mio matrimonio!

Con gran fatica il padre ammise il motivo del suo comportamento. Allora la giovane disse:

- Vede,  caro  papà,  mi aveva cacciato di casa perché ho affermato che l’amo tanto quanto gli uomini amano il sale nel brodo. Senza sale il cibo non è buono?

Quando la ragazza finì il suo discorso, il padre pianse. S’abbracciarono, poi si divertirono per sette giorni e sette notti. La ragazza che faceva la guardiana delle oche era diventata la moglie del giovane re e vissero felici per tanti anni.


IL FIGLIO DEL RE BARBAVERDE

Dov'era, dove non era, c'era una volta un re, oltre i confini dei sette paesi, anche oltre di essi, ed ancora più lontano, in un paese in cui un maialino dalla coda corta grufolava, proprio lì, c’era un re con la barba verde perciò lo chiamarono Barbaverde. Questo re un giorno pensò di andare a vagabondare. Girovagava già da tanto tempo quando si accorse che erano passati diciassette anni da quando era uscito da casa! Si sentiva molto stanco a causa dalle lunghissime camminate, aveva anche un’enorme sete, perciò si avvicinò alla riva di un ruscello che scorreva non lontano da lui. Si coricò sulla pancia per piegarsi sopra lo specchio dell’acqua e dissetarsi. Appena sorseggiò due gocce, sentì che qualcuno tirava la sua barba. Egli volle liberarsi da questa trappola, tirò e tirò, ma non riuscì a liberarla. Infine gridò:

«Senti tu, nonsochitussia, lascia stare la mia barba!

Invece di liberarla, qualcuno tirò ancora di più. Alla fine il re supplicò disperato, anche perché tirandola sempre di più, correva il pericolo di essere soffocato dall’acqua. Improvvisamente una voce proveniente dall'acqua disse:

«Dammi tutto quello di cui non hai conoscenza nel tuo impero, allora libererò la tua barba.»

«Di che cosa non potrei avere la conoscenza? Conosco tutto nel mio impero, fino all’ultimo ago!» rispose il re  Barbaverde.

«Promettimi che mi donerai tutto quello di cui non hai conoscenza!» disse la voce di prima che apparteneva al re dei diavoli. «Va bene, sarà come vuoi tu! Comunque non riuscirai ad avere niente perché non esiste alcuna cosa di cui non abbia conoscenza!» gli rispose il re Barbaverde.

Finalmente riuscì a tirarsi su, era molto scomodo essere coricato sulla pancia. Pian piano riprese la strada verso la sua casa e cercò di ricordare le cose di cui non avrebbe dovuto avere conoscenza.

Quando rientrò al palazzo gli corse incontro un bel ragazzo che gli si aggrappò al collo  e lo baciò affettuosamente sulle guance.

«Oh, caro padre, ci hai lasciati per molto tempo! Che bello riaverti a casa!»

Il re lo guardò con gran sorpresa, poi respinse il ragazzo.

«Di chi sono io padre? E tu di chi sei figlio? Io non ti conosco!»

Ma la moglie gli fece sapere, che quel ragazzo era proprio suo figlio, egli aveva proprio gli stessi anni del vagabondaggio del re.

In quel momento il re Barbaverde cominciò a riprendersi e ricordò le parole pronunciate al re dei diavoli. Ecco: questo bel ragazzino era qualcosa di cui  non aveva alcuna conoscenza e si trovava nel suo impero. Si arrabbiò tanto. Pensò  di  non  darlo  al  re  dei    diavoli,   ma    ebbe   gran  paura che in questo caso egli si sarebbe presentato personalmente. Che cosa fare?

Fece chiamare il ragazzo e gli raccontò tutto quanto. Il figlio non ebbe alcuna paura, anzi, tranquillizzò il padre sostenendo che sarebbe stato meglio se lui se ne fosse andato. Il giorno successivo si preparò e partì in direzione del ruscello del re dei diavoli.

Dopo una lunghissima camminata oltre le frontiere dei sette paesi, arrivò finalmente a quel ruscello in cui era stata intrappolata la barba verde di suo padre. Vide che sull’acqua nuotavano sette splendide anatre d’oro e sulla riva il vento faceva dondolare una camicia. Il principe si piegò per sollevarla e cercò di metterla nella sua bisaccia. In quel momento un’anatra tra le sette si trasformò in una splendida ragazza e disse al principe:

«Bel principe, so chi sei e so anche perché hai fretta. Tu sei il figlio del re con la barba verde e vai da mio padre, il re dei diavoli, perché sei stato donato a lui. Dammi la mia camicia, in cambio avrai il mio aiuto quando ne avrai bisogno!

Il principe senza dir niente gliela diede. La ragazza la indossò, poi tolse un anello dal suo anulare e lo regalò al principe.

«Prendilo. Indossandolo riuscirai a superare i dodici cancelli senza essere fermato. Gira l’anello soltanto quando ciascun cancello sarà già aperto. Quando riuscirai ad entrare nel castello, mio padre ti chiederà delle cose che anche se tu fossi un angelo, non riusciresti a realizzare. Io ti aiuterò. Alle otto di sera sotto forma di un moscone volerò attraverso la tua finestra, tu mi farai entrare. Non devi assolutamente temere nulla!

Il principe infilò l’anello al dito, salutò la splendida ragazza e si diresse verso il castello del re dei diavoli:

«Maestà, chiedo grazia, eccomi davanti a te!».

«Molto bene!» disse il re dei diavoli «Tu parli con gran coraggio. Forse non sai con chi hai che fare?».

«Certo che lo so!» rispose il principe «Non sei diverso da mio padre, egli è un re, anche tu sei un re, ecco tutto!

Il re s’arrabbiò molto.

«Aspetta, ora dovrai risolvere tre problemi! Se ci riuscirai andrà bene, se no, la tua vita finirà! Prendi questa foglia di cavolo cappuccio, tienila! Ora ti rinchiuderò in una stanza. Se per domattina non l’avrai trasformata in un cappello con la piuma di gru, puoi pregare per la tua vita!».

Il principe fu accompagnato fino ad una stanza in cui venne accuratamente rinchiuso con  tre porte. Gli misero anche dei cibi per  uccidere la noia. Povero principe! Quando rimase da solo diventò subito molto triste, perché il compito per lui era ineseguibile.

«Ehi, re dei diavoli, che tua madre pianga per te! » ripeté più volte dentro di sé «Mi hai affidato un compito che non riuscirò a realizzare mai finché sarò in questo mondo!

Mentre la sua mente cercava una soluzione, improvvisamente, sentì un rumore provenire dalla finestra. In quel momento ricordò le parole della splendida ragazza. S’avvicinò e sentì  il moscone dire:

  «Fammi entrare, mio principe,
    voglio soltanto il tuo bene!»

Egli aprì la finestra immediatamente. Il moscone volò nella stanza e si trasformò nella splendida ragazza conosciuta sulla riva del ruscello.

«Allora, anima mia, bell’amore mio, dimmi in che cosa posso aiutarti?»

Allora Jancsi*, perché si chiamava così il principe, raccontò tutto quanto alla ragazza non nascondendo la sua enorme paura a causa dell’impossibilità della richiesta.

«Oh, è soltanto questo il tuo guaio?» reagì la ragazza «Allora non c’è alcun problema! Dov’è quella foglia di cavolo cappuccio?».

«Eccola.»

«Ma guarda!» ed in un attimo sul tavolo si vide un meraviglioso cappello con la piuma di gru. Così bello non l'aveva  neanche Francesco Giuseppe, lo stesso imperatore d’Austria-Ungheria!

Il principe non volle credere ai suoi occhi. Li sforzò per verificare se il cappello fosse vero o soltanto un sogno. Nella sua vita un cappello così non l’aveva visto mai! Dopo un po’ la ragazza disse:

«Ritornerò anche domani, ma non farmi aspettare a lungo come stasera! Quando sentirai il rumore del mio ronzio, fammi entrare subito! Adesso me ne vado, aprimi la finestra!»

Appena ella finì di parlare, si trasformò immediatamente in un piccolo moscone e volò via. Il principe Jancsi andò a dormire tranquillamente, sapeva che il re dei diavoli vedendo quel cappello lo avrebbe guardato con enorme sorpresa.

Il giorno successivo il vecchio Drómó, il re dei diavoli, andò dal principe già la mattina presto. Appena aprì la porta, scoprì sul tavolo il meraviglioso cappello con la piuma di gru. Egli disse al principe:

«Accipicchia! Sei stato molto bravo!»

«Eh, già!» rispose il principe con baldanza.

«Hm... vedo che sei molto orgoglioso di te stesso. Va bene..., adesso ti darò un altro compito. Sicuramente non riuscirai a realizzarlo!»

Il re dei diavoli uscì per un attimo, poi ritornò con una tazza piena di succo di cavolo cappuccio.

«Se per domani non lo trasformerai in uno sprone d’argento, potrai dire addio alla tua vita!»

Il giovane principe tirò su le spalle e rispose:

«Farò anche quello se il buon Dio lo vorrà!»

Il re dei diavoli uscì chiudendo bene la porta della stanza ed il principe si ritrovò da solo.

«Il succo di cavolo cappuccio e lo sprone d’argento sono due cose ben diverse! Questo compito non riuscirò mai a farlo. Che stupido è questo re per ideare tali cose!» pensò dentro di sé il principe Jancsi.

Aspettò la sera e quando arrivarono le venti vide il moscone zigzagare davanti alla finestra:

«Fammi entrare, mio principe,
 
voglio soltanto il tuo bene!»

Lo fece entrare ed esso divenne di nuovo la splendida ragazza di prima. Il principe Jancsi le riferì del compito datogli dal suo padre. Alla ragazza questo non sembrò un gran problema: dal succo del cavolo cappuccio creò uno splendido sprone d’argento. Il principe non volle di nuovo credere ai suoi occhi! Che felicità provò! Abbracciò e baciò la ragazza dalla gioia per ringraziarla del suo prezioso aiuto. Poi lei si scrollò e si trasformò di nuovo in un moscone.

Il giorno successivo il re dei diavoli quasi svenne dalla sorpresa quando vide il magnifico risultato. Egli in ogni modo non ebbe pace, si infuriò: desiderò la morte del giovane principe. Drómó portò una brocca d’acqua e disse:

«Per domattina da questa brocca d’acqua devi creare un’azza d’ottone! Se non lo farai puoi cominciare a scrivere il tuo testamento!» e lo lasciò da solo, chiuso nella stanza.

Il principe Jancsi non gli rispose. Aspettò la sera sperando che anche stavolta tutto sarebbe andato bene. Ma quando la ragazza seppe l’ordine di suo padre, scosse soltanto la testa: non riuscì neanche lei a fare alcunché!

«Lo sai che cosa facciamo? Ce ne andremo da qua, perché qui né te, né io avremo una buona sorte. Ora ti toccherò con la mia bacchetta e diventerai un anello, il mio cavallo si trasformerà in una mela d’oro, io invece sarò un uccellino e così andremo via.» disse al principe.

Appena pronunciate queste parole si trasformarono: il principe in anello, il cavallo in mela d’oro e la ragazza in uccellino. L’uccellino prese l’anello con il becco, con le zampe invece la mela d’oro  e volò via: era più veloce del pensiero.

Il giorno successivo il re dei diavoli si accorse della mancanza della figlia e del principe. Capì subito che essi si erano alleati, perciò chiamò il suo servo e gli ordinò:

«Vai a cercarli e riportameli subito!»

Il servo corse veloce come un lampo. L’uccellino disse all’anello:

«Ahi, che forte vento tira dietro le mie spalle! Ci segue qualcuno!» e non sbagliò. Vedendo un cespuglio, vi si nascose nella parte centrale.

Il servo li raggiunse quasi, ma alla fine non riuscì a trovarli e ritornò dal suo padrone.

«Maestà, non  li ho trovati. Sulla steppa ho soltanto visto un cespuglio, al suo centro un piccolo uccello.»

«Oh, tu gran somaro!» gridò il re dei diavoli «Quell’uccello era mia figlia! Vedo che non posso fidarmi di te, devo andare a prenderli personalmente.»

Drómó, il re dei diavoli, corse come un fulmine per raggiungere la figlia ed il principe. Si sforzò anche l’uccellino, ma fu quasi raggiunto e catturato dal padre. Per fortuna arrivò alla frontiera e la superò appena in tempo, così si salvarono tutti e tre: il re dei diavoli oltre il confine del suo regno non aveva più alcun potere. L’uccellino divenne finalmente e definitivamente la splendida ragazza di prima, l’anello si trasformò in principe e la mela d’oro in magnifico cavallo. Il re dei diavoli scoppiò a causa dell'enorme rabbia che provò vedendoli nel territorio del paese straniero. La ragazza e il principe Jancsi salirono sul cavallo e non si fermarono fino al castello del re con la barba verde, il padre del principe.

Arrivati a casa subito si sposarono e fecero una gran festa nuziale che durò per sette giorni e sette notti. Anch’io partecipai a quella bella festa, suonai il mio contrabbasso e mangiai tante squisite salsicce che poi per molto tempo non  potei assaggiare alcun cibo perché ero ancora sazia. I begli sposini vivono ancora in gran felicità. Diventerei un diavolo se non fosse vero tutto quello che ho appena raccontato! Chi non mi crede, per verificarlo, faccia una ricerca!

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* Jancsi = Giann, è nome diminutivo del nome ungherese «János»


I TRE DESIDERI

Al di là degli Oceani dov'era, dove non era, c'era una volta un uomo molto povero come il topo del tempio. Egli aveva anche una moglie. L’uomo povero e la moglie erano giovani, si amavano ma a causa della povertà spesso litigavano.

Una sera la moglie accese il fuoco. Voleva preparare una buona cena per suo marito. L’acqua non bolliva ancora quando l’uomo entrò a casa e le disse con gran gioia:

«Eh, se tu sapessi...» e l’abbracciò sorridendo misteriosamente.

La moglie s'incuriosì e chiese impazientemente:

«Caro maritino, non mi fate morire dalla curiosità, mi dite che cosa è successo?»

«Che cosa è successo? Cara mogliettina, non saremo più poveri! Da ora in poi avremo tutto quello che desidereremo!»

«Non scherzate con me! O forse voi avete trovato un tesoro?!»

«E come! Ascoltami pure! Stavo tornando a casa dalla foresta quando ho visto qualcosa di strano al centro della strada. Mi sono avvicinato per vedere meglio. Sai che cosa era? Una piccola carrozza intrappolata nel fango. Davanti ad  essa c’erano quattro cani neri come la notte che cercavano di tirarla fuori, ma non c’era niente da fare. Nella carrozza sedeva una bellissima signora, ma tanto bella che non ho visto mai una bellezza simile nella mia vita! Sicuramente era una fata! Soltanto le fate possono essere così belle... Ella mi ha detto: 'Gentile signore, aiutami a venir fuori da questo fango! Ti assicuro che non te ne pentirai!' Ho subito pensato che non sarebbe stato male se ella avesse potuto aiutarci, perché siamo proprio molto poveri. Così ho liberato i cani e la carrozza dal fango. Dopo mi ha domandato: 'Sei sposato?... Siete ricchi?' Io le ho risposto di avere una moglie, ma siamo tanto poveri quanto il topo del tempio. Lei mi ha risposto: 'Allora ti aiuterò. Chiedi a tua moglie di desiderare tre cose, tutti e tre i suoi desideri saranno esauditi.' Appena finì di dirmi queste cose, è svanita nel nulla in un attimo: era più veloce del vento. Ho guardato intorno, ma non ho più visto né lei, né la piccola carrozza con i quattro cani.»

«E voi le avete creduto? Forse vi ha preso in giro!»

«Lo vedremo. Provalo! Desidera qualcosa, mia dolce mogliettina!»

«Magari se avessimo una bella salsiccia! Potremmo prepararla subito sulla brace.»

Appena accennò a questo desiderio, ascoltate che miracolo! Dal camino scese un grande tegame e dentro c’era una salsiccia enorme! Era talmente grande che con essa tranquillamente avrebbero potuto accerchiare il giardino!

«Vedi che avevo ragione?» chiese  il giovane uomo «Ma adesso è ora che desideriamo qualcosa di più intelligente. Magari due manzi, due cavalli e un maiale...»

Nel frattempo il giovane uomo prese la sua pipa per caricarla con quel poco tabacco che gli era ancora rimasto. Cercò di prendere una piccola brace, ma fece un movimento sbagliato e il tegame con la salsiccia si rovesciò.

«Oh, la salsiccia! Che fate voi? Magari si fosse attaccata al vostro naso!» gridò la moglie dalla disperazione mentre voleva salvarla dalla morsa del fuoco. Ma non riuscì e la lunghissima salsiccia era già attaccata al naso del marito.

«Vedi, vedi sciocchina, il secondo desiderio è già sprecato! Stacchiamola!»

La moglie si sforzò  ma non riuscì a toglierla e disse:

«Eh, non c’è niente da fare, dovremo tagliarla. Potremo tagliare un po’ anche dal vostro naso, non sarebbe un gran problema!»

«Per carità, ci mancherebbe altro! Nemmeno per sogno!»

«Se no, allora voi dovete girare fino alla morte con questa salsiccia attaccata al naso!»

«Non pensarlo neanche! Io non girerò così tra la gente! Sai, moglie, abbiamo ancora il terzo desiderio... Chiedi che la salsiccia si stacchi dal mio naso e ritorni al tegame!»

«E allora? Non possiamo più avere né il manzo, né il cavallo, né il maiale!»

«Lo stesso, moglie mia, con questi baffi di salsiccia non posso girare! Esprimi presto il desiderio che la salsiccia torni finalmente nel tegame!»

La moglie non ebbe altra scelta, fu costretta a chiederlo. Trovandola di nuovo nel tegame la lavarono, l'arrosolarono e poi la consumarono con grande appetito fino all’ultimo boccone. Mentre mangiavano fecero la pace e non litigarono più. Lavorarono diligentemente e col tempo con il frutto della loro fatica, ebbero anche manzi, cavalli e maiali. Vissero felici lavorando onestamente e risparmiando quattrini.


IL VECCHIO PESCATORE
E LA MOGLIE CHE VOLLE TROPPO

Dove c’era, dove non c’era, al di là degli Oceani, ma anche oltre essi, Dov'era, dove non era, c'era una volta un vecchio pescatore che viveva in una capanna con la moglie che non era mai soddisfatta.

Un giorno egli andò in mare a pescare. Non dovette aspettare tanto: presto catturò una splendida spigola. Improvvisamente essa disse al pescatore:

«Lasciami libero, pescatore! Ti premierò in modo che non ti pentirai mai per questa tua decisione! Ogni tuo desiderio sarà esaudito...»

Il vecchio non ebbe coraggio di ucciderla, la liberò e la lasciò ritornare in mare.

Tornò a casa senza alcuna preda e la moglie chiese:

«Allora, hai pescato qualcosa? Che pesce hai portato a casa?»

«Ho pescato una splendida spigola.»

«Perché non l’hai portata a casa?»

«Essa mi ha supplicato tanto che non ho avuto coraggio di ucciderla. Ha detto che avrebbe esaudito tutti i nostri desideri...»

«Se sarà così, allora torna immediatamente da essa a dirle che vorrei una bellissima casa!»

Il  vecchio pescatore ritornò sulla riva del mare e disse in alta voce:

«Ascoltami, spigola! Mia moglie vuole una bellissima casa sulla riva del mare.»

Dopo poco essa arrivò e gli rispose:

«Torna a casa, buon pescatore. Sarà come lei ha desiderato!»

Il vecchio pescatore tornò a casa e vide con gran sorpresa che il desiderio della moglie era stato realizzato! La casa era veramente meravigliosa.  Egli la trovò nella cucina che stava preparando da mangiare. La signora fu veramente felice, ma non a lungo. Un giorno disse di nuovo al marito:

«Ascoltami, torna dalla spigola e dille che mi sono stufata di questa casa e voglio che mi dia un castello! Noi invece diventeremo conti!»

Il vecchio pescatore ritornò sulla riva del mare e gridò:

«Spigola, ascoltami! Mia moglie insoddisfatta litiga sempre con me.»

Dopo qualche minuto la spigola arrivò e chiese:

«Allora, che cosa vuole tua moglie?»

«Vuole un castello e desidera anche che noi diventiamo conti!»

«Torna a casa, buon pescatore, sarà com'ella ha desiderato!»

Il pescatore arrivò a casa e non volle credere ai suoi occhi: la splendida casa era sostituita da un meraviglioso castello e sua moglie, divenuta contessa, girava da una stanza all’altra vantando la nuova posizione sociale.

«Sei finalmente soddisfatta, ora?» le chiese il marito.

La moglie era tanto contenta.  Ma la mattina del giorno successivo appena svegliata disse al marito:

«Ascoltami! Torna dalla spigola e dille che voglio diventare una regina ed avere un palazzo reale!»

Il povero pescatore, anche se mal volentieri, tornò sulla riva del mare per chiamare la spigola:

«Spigola, ascoltami! Mia moglie insoddisfatta litiga sempre con me.»

Dopo un po’ essa si fece vedere e chiese:

«Che cosa vuole ancora tua moglie?!»

«Vuole diventare una regina e desidera un palazzo reale!»

«Pescatore, torna pure a casa. Sarà come vuole lei.»

Il povero pescatore tornò a casa e quasi perse la vista per il gran splendore: il castello era sostituito da un enorme palazzo reale pieno di guardie ed ufficiali e quando egli passò davanti a loro essi si misero eretti ed immobili. Finalmente dopo aver attraversato innumerevoli stanze ed essersi arrampicato per migliaia di scalini, arrivò alla stanza in cui si trovava la moglie-regina e le chiese:

«Allora moglie, sei finalmente soddisfatta della tua sorte?»

«Sì!» gli rispose.

Appena arrivò l’alba, la moglie disse al marito:

«Ascoltami, torna dalla spigola e dille che io vorrei diventare imperatrice e voglio dei palazzi e delle fortezze che non si trovano in alcuna parte del mondo!» Il pescatore s'oppose ma la moglie insisté in tal modo che egli dovette ritornare sulla riva del mare e chiamò  la spigola tristemente:

«Ascoltami! Mia moglie litiga con me sempre.»

L’acqua del mare si agitò,  onde gigantesche s'alzarono in alto nell’aria, poi la spigola molto arrabbiata si presentò:

«Allora, che cosa vuole ancora tua moglie?!»

«Adesso vuole diventare imperatrice e desidera dei palazzi e dei forti che non si trovano in alcuna parte del mondo.»

«É vero che tua moglie non  lo merita, non ha lavorato per avere tutto questo, ma non importa, torna pure, sarà com'ella ha desiderato!»

Il pescatore tornò a casa e non volle credere ai suoi occhi: palazzi, castelli pieni di gente della corte si presentarono davanti a sé. Egli disse subito alla moglie:

«Adesso dovresti essere veramente soddisfatta! Io non tornerò più dalla spigola!»

La moglie sembrava felicissima. Trascorse anche questo giorno e la mattina successiva si rivolse al marito:

«Ascoltami! Torna dalla spigola a dirle che io voglio diventare la padrona dell’intero mondo. Voglio che tutti siano sotto il mio potere e s’inginocchino davanti a me! Desidero che il mio impero sia infinito!»

Il pescatore s'oppose, ma non riuscì a fare diversamente, tornò sulla riva e chiamò la spigola:

«Ascoltami, spigola! Mia moglie insoddisfatta litiga sempre con me.»

Il vecchio pescatore dovette aspettare molto a lungo. Il mare divenne furioso, ondeggiava con rabbia, sembrava che volesse uscire dal letto ed inghiottire la spiaggia. Dopo tantissimo tempo la spigola finalmente si fece vedere e chiese:

«Che cosa vuole tua moglie?!»

«Vuole diventare la padrona dell’intero mondo e desidera che tutti si pieghino sotto i suoi piedi.»

«Va bene, se ella pensa di vivere senza lavoro e di dominare gli altri, allora sarà meglio che ritorniate i pescatori di prima. Torna pure a casa e la troverai nella vostra capanna di pescatori!»

E fu così! Il pescatore ritrovò la sua capanna e dentro la moglie. Da questo momento ella diventò una brava massaia e vissero felici e contenti. Se volete vederli, andate sulla riva del mare, sicuramente li troverete ancora e vedrete che lavorano con gran diligenza.


MATYI DELLE OCHE

Dov'era, dove non era, c'era una volta una povera vedova che ebbe un figlio di nome Mátyás*. Ma tutti lo chiamarono: Matyi**. Questo ragazzo era molto cattivo, sua madre litigava sempre con lui: egli era molto pigro, non voleva lavorare. La povera vedova non riuscì a fare niente: egli dalla mattina alla sera, dalla sera alla mattina era coricato sul suo letto e così faceva trascorrere le sue giornate.

«Io non lavoro per gli altri!» disse sempre alla madre. Per fortuna però s'occupava d'una cosa: sorvegliava le loro diciannove oche; le due più grandi fra esse erano i genitori. Quando le piccole oche divennero grandi, proprio in quel periodo, a Döbrög era organizzato il mercato. Allora il ragazzo disse alla madre:

«Madre, porterò queste oche al mercato di Döbrög.»

«Perché dovresti portarle là? Potremo venderle anche qui!» s'oppose la madre.

Matyi non le diede ascolto e si preparò per andare al mercato. La madre non disse più alcuna parola, gli cucinò delle focacce per il viaggio: «Se vuole andare, vada pure» pensò. Egli preparò soltanto le piccole oche, esattamente diciassette, e partì per Döbrög.

Appena si sistemò al mercato, il signor Döbrögi*** si fermò davanti a lui e chiese:

«Per quanto mi venderesti un paio di oche?»

«Due monete d’argento. Non le venderei a meno neanche a mio padre!» egli rispose.

«Ehi!» rispose il signor Döbrögi di Döbrög: «Mascalzone, a me, che sono un proprietario fondiario, nessuno ha imposto il prezzo della merce! Non lo farai nemmeno tu! Me le darai per  quaranta centesimi!»

«Nemmeno per sogno! Ho già detto il prezzo: due monete d’argento!»

Il signor Döbrögi disse  ai due soldati che stazionavano dietro di lui:

«Arrestatelo e accompagnatelo fino a casa mia! Anche le oche siano portate là!»

Matyi venne accompagnato con la forza a casa del signor Döbrögi. Presero le oche senza pagarle, poi lo bastonarono per bene: gli diedero venticinque bastonate. Ricevette le botte  per le diciassette oche invece delle monete d’argento.

Quando s’alzò con gran fatica Matyi disse:

«Eh, va bene! Signore, io le ripagherò tre volte di ciò che ho ricevuto!»

Il signor Döbrögi divenne ancora più furioso ed ordinò: «Riprendete quel farabutto e dategli ancora trentasei bastonate!»

I soldati lo ripresero e lo fecero coricare di nuovo sul cavalletto di tortura. Dopo le trentasei bastonate lo fecero andar via. Matyi uscì senza dir alcuna parola, ma la promessa precedentemente annunciata maturava sempre più nella sua anima.

Per la vergogna e la rabbia se ne andò a vagabondare. Passarono alcuni anni, ma egli non riusciva a dare pace alla sua anima, perciò ritornò nel paesino nativo. Rientrando sentì dire che il signor Döbrögi stava costruendo un nuovo castello. Allora non rimase senza far niente, si procurò gli indumenti necessari  per travestirsi da falegname. Così si presentò nella città di Döbrögi. Il castello era già costruito a metà. I legnami squadrati giacevano accanto al castello. Matyi s’avvicinò ad essi e cominciò a misurarli come un vero falegname.

Il signor Döbrögi lo vide e l'avvicinò per interrogarlo:

«Chi è lei, se posso sapere? Finora non l’ho visto!»

«Sono un falegname venuto dall’estero. Posso dire senza vantarmi che sono molto famoso!»

Il signor Döbrögi cominciò a preoccuparsi per il castello e subito chiese al finto falegname:

«Vanno bene queste assi quadrate?»

Egli rispose: «L’edificio può andar bene, ma queste assi non valgono niente. Non sono adatte per questo lavoro.

Döbrögi cominciò a pensare che cosa fare, poi disse:

«Ho un bellissimo bosco in cui si trovano gli alberi più belli del mondo. Se queste non sono adatte, farò tagliare da esso i più belli. Venga con me e scelga tutti quelli che potrebbero essere adatti!»

Döbrögi ordinò a cento boscaioli di andare al bosco. Egli con Matyi salì sulla sua splendida carrozza. Giunti al bosco vi penetrarono sempre più in profondità, là dove gli alberi erano più fitti. Strada facendo il finto falegname segnalò gli alberi adatti e così i cento boscaioli rimasero indietro per tagliarli. Matyi e Döbrögi avanzarono ancora, alla fine arrivarono in una profonda valle dove  non si sentivano più i rumori delle asce. Matyi trovò qui un albero adatto, bello e grande, e lo indicò al signor Döbrögi dicendo:

«Misuri lei personalmente il tronco di questo albero! Penso che possa andar bene.»

Döbrögi abbracciò il tronco per controllare la sua larghezza. Matyi, che  aspettava proprio questo momento, legò le mani di Döbrögi con una corda robusta. Nella sua bocca mise del muschio per evitare che egli potesse gridare. Dopo tagliò un bel ramo flessibile e lo bastonò finché non si stancò. Poi prese dalla tasca di Döbrögi il prezzo delle oche e ritornò a casa. Prima di allontanarsi disse:

«Io non sono un falegname, io sono Matyi! Ricorda?... quel Matyi con le oche! Io sarò da ora in poi sempre Matyi delle Oche! Lei ha preso le mie oche con la forza ed invece di pagarmi il loro prezzo mi ha bastonato! Ritornerò ancora due volte. Lo ricordi bene: ho promesso di ripagare tutto quanto ben tre volte! Sono ancora in debito di due bastonate con lei!» - detto ciò s'allontanò e lasciò Döbrögi da solo.

I cento boscaioli tagliarono tutti gli alberi segnati dal falegname e si stavano riposando mentre aspettavano il loro padrone. Ad un certo punto, stanchi di aspettarlo, preoccupati, partirono alla sua ricerca. Finalmente lo trovarono, ma non videro da nessuna parte il falegname. Quando s’avvicinarono a Döbrögi si resero conto della grave situazione: egli era irriconoscibile, e dal gran dolore non riusciva a dire nient’altro che balbettare queste frasi: «Egli non era un falegname, ma era Matyi delle Oche! Ho preso le sue oche senza pagarlo! Ma è successo tanto tempo fa, io ho già dimenticato! Mi ha promesso di ritornare ancora due volte per bastonarmi!»

Portarono Döbrögi avvolto in un lenzuolo a casa. Per tanto tempo non si alzò dal letto. Scrisse lettere a vari dottori per chiedere una cura adatta alle sue ferite. Ma non si trovò nessuno che avesse coraggio di curarlo. Dopo qualche giorno questa notizia arrivò anche alle orecchie di Matyi. Non dovette pensare a lungo, egli si trasformò in un finto dottore, affittò una carrozza e partì per  Döbrög. Si fermò in una locanda per riposare e chiacchierare con gli abitanti. Chiese al titolare:

«Che novità avete in questa città?»

«Non c’è niente di particolare se non quella che il signor Döbrögi è molto ammalato. Se ci fosse un dottore che potresse curarlo, egli riceverebbe anche un gran compenso...»

«Io avrei coraggio e lo potrei anche guarire!» - Matyi rispose con un accento da straniero ed accarezzò la sua barba finta.

Eh, che gran gioia aveva il titolare. Mandò immediatamente la notizia del dottore straniero alla casa di Döbrögi chiedendo di inviare qualcuno ad invitarlo: egli guariva tutti!

Arrivarono a prenderlo con un’elegante carrozza. Nella stanza da letto di Döbrögi il finto dottore visitò l’ammalato e scosse la testa. Döbrögi lo guardò e chiese balbettando: «È vero, lei non è sicuro di potermi guarire?»

Il  finto dottore rispose: «Se potrò, lo farò!»

Il signor Döbrögi si sollevò sentendo questa notizia. Matyi fece accendere il fuoco per riscaldare l’acqua per il bagno. Poi mandò via tutta la servitù per raccogliere tutte le erbe medicinali esistenti nel bosco. In casa non rimase nessuno, soltanto il signor Döbrögi e Matyi delle Oche. Matyi aspettava proprio questo momento, prese il suo bastone, si fermò davanti a Döbrögi e disse:

«E adesso ecco la cura!» e cominciò a bastonarlo, poi continuò: «Non sono il dottore, ma Matyi delle Oche!» Dopo averlo ripagato con le bastonate, prese  dai soldi trovati nel comò, il prezzo delle oche. Prima di uscire egli disse ancora: «Sono già venuto due volte! Ancora una volta ritornerò!» e lasciò Döbrögi in compagnia con i suoi dolori. Quando la servitù rientrò in casa con le erbe medicinali, trovò con grande stupore il proprio signore più ammalato di prima. Alle domande egli rispose balbettando:

«Lui non era il dottore! Egli era Matyi delle Oche!»

Alla fine il signor Döbrögi trovò un bravo dottore che lo curò veramente. Da allora egli ebbe intorno a sé perennemente la guardia per evitare l’incontro con Matyi delle Oche. Poco a poco lo dimenticò.

Dopo qualche tempo fu organizzato di nuovo il mercato di Döbrög. Matyi delle Oche ricordò la sua promessa e ritornò al mercato trasformandosi in commerciante di cavalli. Dopo aver venduto la sua merce girò nel mercato aspettando il signor Döbrögi. Mentre girovagava tra la gente, sentì che un signore si vantava: «Il mio cavallo è il miglior corridore!»

Matyi delle Oche sentendo si rivolse a lui: «Dice sul serio? Io sto cercando un cavallo molto veloce! Lo comprerò se lei farà la corsa di prova come voglio io!»

L’uomo rispose: «Lo farò!»

Così conclusero l’accordo e Matyi disse: «Lei si fermi qua con il suo cavallo e quando il signor Döbrögi arriverà con la sua carrozza lei gridi: 'Io sono Matyi delle Oche!' Poi corra velocemente, come il vento, altrimenti perderà la sua testa!»

L’uomo accettò le condizioni. Alle due di pomeriggio, alla periferia della città, aspettarono Döbrögi. L’uomo avvicinò la carrozza e gridò fortemente: «Io sono Matyi delle Oche!», poi corse via velocemente.

«Prendetelo, prendetelo! Chi lo catturerà riceverà due monete d’oro! Andate tutti quanti!» ordinò Döbrögi.

Tutti corsero dietro al finto Matyi, così quello vero si fermò tranquillamente accanto alla carrozza e disse a Döbrögi:

«Quello non è Matyi delle Oche! Io sono Matyi!»

Döbrögi quasi perse i sensi dalla paura. Matyi non si ritirò: gli diede ciò che aveva promesso per la terza volta. Poi prese ancora dalle tasche di Döbrögi il prezzo delle oche. Questa volta era l’ultima. Matyi da allora sparì per sempre dal territorio di Döbrögi. Si fermò in una regione lontana, si sposò e visse felice fino alla sua morte.

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* Mátyás = Mattia

**  Matyi = Matti

*** Döbrögi si pronuncia: «Döbröghi», ö = o della prima «o» della parola francese «monsieur»


ILONA FATABELLA  ED ÁRGYÉLUS

Dov'era, dove non era, c'era una volta un re che aveva tre figli. Questo re possedeva anche un albero di mele. Non era però un albero qualsiasi: pensate, aveva i frutti d’oro! Era proprio straordinario: la notte fioriva e poi nascevano  le mele d’oro. Così il patrimonio del re sempre aumentava:  egli era il sovrano più ricco di tutto il mondo!

Una mattina il re uscì, come ogni mattina, nel suo splendido giardino per fare una passeggiata. Che cosa era successo? Egli non trovò alcuna mela d’oro! Così fu anche il secondo ed il terzo giorno.

Il re invitò immediatamente tutta la corte a riunirsi ed annunciò:

«Se riuscirò ad incontrare un uomo che potrà sorvegliare l’albero di mele d'oro impedendogli di perdere i suoi frutti, gli regalerò la metà del mio regno!»

I guardiani si misero subito sotto l’albero per sorvegliarlo. Ma purtroppo non riuscirono a rimanere svegli, a mezzanotte in punto si addormentarono. Trascorse  appena un quarto d’ora e le mele d’oro sparirono dall’albero. Così, quando si  svegliarono, non ne trovarono alcuna. Dopo questo insuccesso i tre principi, i figli del re, decisero di tener loro sott'occhio l’albero durante la notte.

Il principe più anziano sorvegliò l’albero per  primo. Ma anche a lui successe la stessa cosa dei guardiani.

Non ebbe un risultato migliore neanche il secondo principe.

Alla fine il principe più giovane, Árgyélus, decise di sorvegliare l’albero per evitare la sparizione delle mele d’oro. Prima di tutto egli  mise nella sua tasca una scatoletta d’oro piena di tabacco, poi si sistemò sotto di esso.

Il chiaro di luna illuminava il viso del principe Árgyélus. Egli cominciò a sentire un gran sonno. Per evitare di addormentarsi annusò il tabacco della scatoletta d’oro, si grattò gli occhi e starnutì parecchio. Di nuovo poi lo annusò anche una seconda volta e si strofinò gli occhi, così riuscì a rimanere sveglio. Per fortuna! Ad un tratto Árgyélus avvertì un mormorio. Guardò verso il cielo... Che cosa vide? Tredici corvi che volavano proprio verso l’albero di mele. Árgyélus riuscì a catturare la zampa del tredicesimo corvo che era la loro guida e gridò:

«Eccoti, tu sei il ladro!»

Appena finì di pronunciare questa frase, tra le sue braccia giacque una splendida ragazza con ricci capelli d’oro che coprivano le sue spalle bianche.

«Chi sei tu, splendido ladro?» chiese il principe «Non ti lascerò mai!»

«Sono Ilona Fatabella» rispose la bella ragazza «e questi corvi sono le mie sorelle. Per divertimento tutte le notti siamo venute qua per raccogliere le mele d’oro. Ma devo confessarti che non posso rimanere da te, nonostante tu sia una persona che non potrò mai dimenticare... Devi sapere che amo soltanto te!»

«Resta da me!» chiese Árgyélus alla ragazza.

«Non posso...» rispose Ilona Fatabella «ma ti prometto che da oggi in poi tutti i giorni ritornerò qua...  e non porterò via le mele d’oro. Stai sempre qui se vuoi vedermi!»

Dopo di ciò i tredici corvi volarono via con gran rumore.

Il giorno successivo tutta la corte si meravigliò perché le mele d’oro erano rimaste intatte. Il re per riconoscimento baciò la fronte del suo figlio più piccolo. Árgyélus non disse nient’altro: soltanto chiese al padre il permesso di rimanere d’ora in poi sotto l’albero per sorvegliarlo. Così Árgyélus tutte le notti si recò dall’albero per vedere Ilona Fatabella.

Ma nella corte del re viveva anche la Vecchiastrega che controllava sempre il principe Árgyélus. Anche il re cominciò ad essere curioso: perché ad Árgyélus piace tanto fare la guardia sotto l’albero? Perciò il re chiamò la Vecchiastrega e le disse:

«Vedo che tieni sott’occhio Árgyélus. Osservalo di nascosto quando egli farà la guardia all’albero!»

La Vecchiastrega obbedì. Quando Árgyélus uscì, la Vecchiastrega si nascose dietro ad un cespuglio. La mattina presto del giorno successivo comunicò al re:

«Ho   spiato  il  principe  Árgyélus.   L’ho  visto seduto sotto l’albero di mele d’oro insieme con una meravigliosa fanciulla dai capelli d’oro: ella quando è arrivata era un corvo. Fermandosi sull’albero il corvo è diventato questa splendida ragazza.»

«Sei bugiarda, Vecchiastrega! Non è vero!» rispose il re.

«Ma è così, Maestà! Se lei vorrà, domani le fornirò le prove per dimostrare ciò che le ho raccontato.»

La notte del giorno successivo Árgyélus ed Ilona Fatabella di  nuovo si erano divertiti insieme. Improvvisamente, senza accorgersene, s'erano addormentati entrambi. In quel momento la Vecchiastrega s'avvicinò e tagliò una ciocca dai capelli d’oro della ragazza, poi se ne andò.

Ilona Fatabella si svegliò e cominciò a piangere disperatamente. A causa del suo pianto si svegliò anche Árgyélus.

«Che cosa hai mia cara?»

«Ahi, ahi, Árgyélus! Che tu sia felice, ma io non potrò più vederti, non potrò più rimanere con te... Nella tua casa vivono dei ladri... Guarda: qualcuno ha tagliato una ciocca dei miei capelli.»

Abbracciò Árgyélus, poi tolse  un anello dal suo anulare e glielo diede:

«Te lo do» disse «così ti riconoscerò in qualsiasi luogo.»

Fece un battito di mani, si trasformò immediatamente in corvo e volò via.

La mattina successiva la Vecchiastrega mostrò la ciocca di capelli al re. Egli si meravigliò molto e chiamò subito il principe Árgyélus.

«Mio caro figlio, ho già fatto sposare i tuoi fratelli... È arrivato il momento anche per te, ti ho cercato una ragazza ricca, spero che non t’opporrai.»

«Caro padre, io non mi sposerò, oppure lo farò soltanto se io stesso potrò scegliere la mia sposa. L’ho già trovata. Ilona Fatabella sarà mia moglie!»

Al re non piacque questa risposta e insistette perché il figlio cambiasse idea, ma non c’era niente da fare. Il principe Árgyélus prese la sua spada e se ne andò per cercare Ilona Fatabella. Tutta la corte si rattristò: si aveva l’impressione che fosse in lutto per il principe.

Árgyélus girovagò in tutto il mondo, ma purtroppo non trovò tracce di Ilona Fatabella.

Camminò, camminò, era già molto stanco quando finalmente arrivò ad una casetta in cui viveva una vecchietta. Egli la salutò secondo le regole delle buone maniere. La vecchietta stava seduta sulla sua antica e consumata sedia e chiese ad Árgyélus con sincera sorpresa:

«Come mai ti trovi in questo luogo in cui non arriva neanche un uccello?»

«Cara vecchietta» disse Árgyélus « lei mi saprebbe dire dove abiti Ilona Fatabella?»

«Purtroppo no, caro figliolo, ma forse se ritornerà mio marito, il Sole... Egli manda i suoi raggi ovunque, forse egli saprà dirtelo. Ora però nasconditi, altrimenti ti mangerà se si accorgerà di te!»

Árgyélus si era appena nascosto quando il Sole entrò in camera e disse subito:

«Puah!, puah! Vecchietta, la carne dell’uomo puzza! Puah!»

Árgyélus sentendo il lamento del Sole si scoprì uscendo  dal suo nascondiglio che si trovava sotto il letto e lo salutò con gran cortesia.

«Sei fortunato ad avermi  salutato cortesemente» disse il Sole «altrimenti ti avrei mangiato! So che cerchi Ilona Fatabella... Non so niente di lei, ma forse mio fratello Luna potrà aiutarti.»

Árgyélus andò alla casa di Luna, ma non ebbe fortuna. Luna l’indirizzò dal Vento. Il principe andò a trovare anche lui per avere notizie di Ilona Fatabella.

«Io» gli rispose il Vento «non so niente di lei, ma non lontano da me, là, in quel bosco vive il Re degli Animali, forse lui saprà esserti utile.»

Árgyélus riprese la strada, camminò, camminò fino a quando fece buio. Non vedeva niente, perciò s’arrampicò sulla cima di un albero sperando di trovar qualche traccia di luce lontana. Infatti, vide un sottile filo di luce proveniente dalle finestre di un castello, che distava ancora poco. Quando finalmente arrivò al castello bussò alla porta. Essa si aprì ed Árgyélus si trovò di fronte un gigante che aveva soltanto un occhio sulla fronte.

«Buonasera, Maestà!» lo salutò Árgyélus «Sapresti dirmi qualcosa di Ilona Fatabella? Dove abita?»

«Hai fortuna ad avermi salutato come si deve, altrimenti saresti diventato figlio della morte! Io sono il Re degli Animali. Forse qualcuno tra i miei sudditi saprà dirti qualcosa.»

Il Re degli Animali emise un fischio e tutto il palazzo si riempì. Il re chiese notizie di Ilona Fatabella ma nessuno poté rispondere. Alla fine si presentò un lupo zoppo:

«Io» disse il lupo «so qualcosa. Vive oltre il Mar Nero, proprio dove mi hanno rotto la zampa.»

«Allora conduci là questo povero principe!» gli ordinò il Re degli  Animali.

Il lupo zoppo si fermò davanti al principe chiedendogli di sedersi sulla propria schiena. Così girarono cento ed ancora altri cent’anni. Ad un tratto il lupo mise giù Árgyélus dicendo:

«Non posso portarti oltre. Adesso anche tu riuscirai a trovare la casa di Ilona Fatabella: non è più tanto lontana... Devi ancora camminare per cent’anni!» poi salutò il principe e se ne andò zoppicando.

Il principe continuò la strada da solo. Ad un certo punto vide una valle che era circondata da tre montagne. In questa valle tre diavoli lottavano. Il principe li avvicinò e chiese:

«Perché lottate?»

«Nostro padre è morto e per eredità ci ha lasciato un mantello, una frusta ed uno scarpone. Indossando questo mantello e questi scarponi puoi trovarti dove vuoi. Devi soltanto scoccare questa frusta e dire: 'Opplà-opplà, desidero essere là dove voglio!'- ed in un attimo ti troverai proprio in quel luogo dove desideri arrivare! Ma noi non sappiamo decidere di condividerli.»

«Allora, non vi preoccupate. Io risolvo questo vostro gran problema e divido questi oggetti. Uno di voi vada sulla cima di quel monte di fronte, l’altro invece su quello di sinistra, e tu più piccolo su quello di destra. Quando ritornerete vi riferirò la mia decisione.»

I tre diavoli fecero come Árgyélus suggerì loro. Nel frattempo il principe indossò il mantello, infilò i piedi negli scarponi, fece scoccare la frusta e disse:

«Opplà, opplà, desidero trovarmi dove voglio! Desidero essere subito da Ilona Fatabella!»

Appena pronunciò questa frase egli si trovò di fronte ad un meraviglioso castello di cristallo. Una damigella di Ilona Fatabella guardò da una finestra poi subito corse da lei:

«Árgyélus sta arrivando!»

Ilona Fatabella pensò di essere presa in giro, perciò le diede uno schiaffo. Ma venne subito un’altra damigella, poi la terza, la quarta ed infine  la tredicesima: ma tutte quante ricevettero uno schiaffo come la prima.

Árgyélus bussò alla porta. Una signora anziana la aprì. Guardò con gran meraviglia, il principe poi con calorose manifestazioni di gioia gli disse:

«Che bello che tu sia qui, Árgyélus, così potrai liberare Ilona Fatabella! Ora non puoi recarti da lei, il crudele Mago la tiene sequestrata in compagnia delle tredici accompagnatrici. Soltanto intorno a mezzanotte Ilona Fatabella può girare liberamente. Allora tu devi baciarla tre volte, così il Mago non avrà più potere su di lei. Sei arrivato in tempo, per fortuna egli ora non si trova a casa, altrimenti saresti già figlio della morte!»

«Io non ho paura, combatterò con lui!» Árgyélus rispose.

L’anziana signora fece entrare Árgyélus, gli cucinò una cena squisita e preparò il letto con la biancheria di seta, poi disse:

«Ogni mezzanotte Ilona Fatabella viene qua, non addormentarti!»

Ma quest’anziana signora apparentemente gentile non era nient’altro che la cattiva strega: la Vecchiastrega! Ella aveva un fischietto, vi soffiava dentro e riusciva ad ottenere tutto quello che voleva. Fece così anche dopo che Árgyélus finì la cena. Egli immediatamente s’addormentò. A mezzanotte arrivò Ilona Fatabella, trovando il suo fidanzato gridò:

«Svegliati caro! Se mi bacerai tre volte, sarò liberata dall’incantesimo!»

Ma Árgyélus dormiva come un sasso. La mattina la strega gli disse:

«Ilona Fatabella era qua, ma tu hai dormito come un sasso.»

Successe la stessa cosa anche il secondo ed il terzo giorno.

Dopo questi tre giorni d’insuccessi la Vecchiastrega però, chissà come, s’addormentò. Árgyélus scoprì il fischietto intorno al suo collo, lo sciolse, poi dalla curiosità vi soffiò dentro. Vide che a causa del suono tutta la servitù si era addormentata e così scoprì che anche la Vecchiastrega aveva fatto la stessa cosa con lui e per questo che non riuscì a rimanere sveglio. Si legò il fischietto al collo ed ogni volta che la Vecchiastrega cominciava a svegliarsi egli emise un fischio. Così fece fino a mezzanotte.

A mezzanotte, puntualmente, arrivò Ilona Fatabella. Árgyélus la baciò tre volte ed in quel momento tutto il castello s’illuminò, tutte le porte s’aprirono  e la Vecchiastrega sprofondò: il suolo la inghiottì. C’è da accennare che prima di baciarla per la seconda volta Árgyélus le diede tredici schiaffi e disse:

«Ti ho dato tredici schiaffi perché tu hai ripagato così la sincerità delle tue accompagnatrici!»

«Lo merito» sussurrò Ilona Fatabella.

Árgyélus indossò di nuovo il mantello e gli scarponi, prese in braccio Ilona Fatabella e fece scoccare la frusta:

«Opplà, opplà, desidero essere là dove voglio. Desidero trovarmi nel castello di mio padre!»

Immediatamente si ritrovarono a casa del padre del principe. Árgyélus succedendo a lui divenne un re grande e potente ed Ilona Fatabella la più grande fata. Si sposarono, condussero insieme il loro regno con autentica giustizia. I cattivi maghi e le streghe, i diavoli e tutti quelli che vivevano soltanto per far male agli altri vennero cacciati all’Inferno. Ilona Fatabella ed Árgyélus insieme con il popolo vissero felici e contenti: nel loro impero non vi furono più sintomi di cattiveria e di violenza perché qui tutti vollevano bene al prossimo. La chiave della loro felicità fu sempre: il rispetto, la bontà, la comprensione e la disponibilità ad aiutare i bisognosi... Vi assicuro che era così, anch’io c’ero nel loro regno. Se non mi credete, fate pure una ricerca!


IL PECORAIO DAGLI OCCHI A STELLA

Dov’era, dove non era, c’era una volta un terribile re. Egli aveva un enorme potere e tutti i popoli del mondo  avevano paura di lui. Vedendolo già da lontano, cominciavano tutti a tremare come foglie di pioppo. Quando egli starnutiva l’intero paese doveva dire: «Alla sua salute!» Nessuno osava non dirlo, salvo un giovane pecoraio dagli occhi di stelle. Quando questo terribile re seppe di lui s’arrabbiò molto ed ordinò di catturarlo.

 «Eccolo, Maestà, è proprio lui che non vuole dire: 'Alla sua salute!'

Il re arrabbiato disse urlando al pecoraio:

«Dimmi subito: 'Alla mia salute!'»

 «Alla mia salute!» disse il pecoraio dagli occhi di stelle.

«Non a te, a me, mascalzone!» urlò il re.

«A me, a me, Maestà!»

«Ma a me, tu, disgraziato!» urlò il re fuori di sé «Dimmi immediatamente: 'Alla salute, Maestà'!»

«No, io non lo dico finché sua figlia non sarà mia moglie!»

La principessa si trovava nella stanza e questo pecoraio coraggioso le piacque, avrebbe perciò volentieri accettato di diventare sua moglie, ma non ebbe coraggio di manifestare questa sua volontà. Il re non fu affatto contento, anzi la sua faccia cambiò dalla rabbia anche colore: diventò viola, verde, azzurra e subito ordinò di rinchiudere il pecoraio nella prigione:

«Buttatelo nella prigione in cui si trova l’orso bianco che non mangia nemmeno un boccone già da tre giorni. Il pecoraio pensò di perdere subito la vita. Miracolo nel miracolo! L’orso bianco invece, come vide gli occhi a stella del pecoraio, si ritirò nell’angolo più lontano della prigione e non lo toccò.

La mattina successiva arrivò il siniscalco per raccogliere le ossa del pecoraio, sicuro che egli fosse stato mangiato dalla bestia affamata. Fu stupito di trovarlo in ottima salute! Lo ricondusse dal re.

«Pecoraio, sei stato vicino alla morte. Tu, mascalzone, dirai adesso finalmente 'Alla sua salute, Maestà!'?» gli intimò il re.

Il pecoraio invece gli rispose:

«Non ho paura neanche di dieci morti! Lo dirò solo se la principessa sarà mia moglie!»

«Vai alle dieci morti! Buttatelo nella prigione dei dieci ricci giganti!»

Il pecoraio stavolta ebbe un problema non da poco. I dieci ricci giganti non diventarono gentili e calmi giacché egli non poté guardare nei loro occhi contemporaneamente. Fortunatamente, sotto la mantella egli aveva  un flauto straordinario: non appena lo suonò, i ricci giganti si misero a ballare finché non crollarono sfiniti. La mattina il siniscalco lo ritrovò tutto intero:

«Sei ancora vivo?»

«Sì, e non morirò finché la principessa non sarà mia moglie!»

Il guardiano lo condusse davanti al re.

«Allora, ragazzo, eri nella gola delle dieci morti. Mi dici finalmente 'Alla sua salute, Maestà!'?»

«Lo dirò soltanto se la principessa sarà mia moglie!»

«Portatelo allora alla prigione delle cento morti!» urlò il re con gran furia.

I guardiani portarono il pecoraio dagli occhi di stelle nella prigione delle cento morti in cui c’era un pozzo dalle cui pareti interne uscivano cento falci ed al fondo del quale c’era una fiamma. Chi vi veniva buttato non rimaneva vivo, era destinato a morte sicura!

«Ehi, povero me...» pensò dentro di sé il pecoraio dagli occhi di stelle «questo non è affatto uno scherzo!» Disse ai guardiani di uscire un po’ dalla prigione perché voleva riflettere se dire 'Alla sua salute, Maestà!'. I soldati uscirono ed il pecoraio attaccò la sua azza al parapetto del pozzo poi  pose sopra la sua bisaccia, il mantello e il cappello e si nascose nell’angolo buio della prigione. I soldati rientrarono e gli chiesero:

«Allora ci hai ripensato?»

«Ho riflettuto, ed ho deciso di non dire: 'Alla sua salute, Maestà!'» rispose loro.

«Se non lo dirai, allora dobbiamo gettarti nel pozzo.»

I soldati credettero che la sagoma accanto al pozzo fosse il corpo del pecoraio e ve lo buttarono. Quando videro il fuoco spegnersi pensarono che il pecoraio fosse sicuramente morto.

La mattina successiva arrivò il siniscalco per accettarsi personalmente della morte del pecoraio dagli occhi di stelle. Non volle credere ai suoi occhi: era seduto accanto il pozzo e suonava il suo flauto. Lo riportò davanti al re che gli disse:

«Allora, ragazzo, tu sei stato vicino alle cento morti, mi dirai finalmente: 'Alla sua salute, Maestà!'?»

«No, Maestà, finché sua figlia non sarà mia moglie!»

«La principessa non sarà tua moglie, sono sicuro!» pensò il re, anche se avrebbe dato qualsiasi cosa per sentire dire da lui: 'Alla sua salute, Maestà!'.  «Ti accontenterai anche di meno...»

Il re fece preparare la carrozza di velluto, fece sedere accanto a lui il pecoraio dagli occhi di stelle e andarono verso il bosco d’argento. Arrivando egli disse al ragazzo:

«Pecoraio, vedi questo bosco d’argento? Te lo regalerò se mi dirai: 'Alla sua salute, Maestà!'»

«Non lo dirò, Maestà, finché sua figlia non sarà mia moglie!»

Uscendo dal bosco d’argento videro un castello d’oro, splendente, che quasi li accecò.

«Pecoraio, vedi quel castello d’oro? Te lo regalerò se mi dirai: 'Alla sua salute, Maestà!'»

«Non lo dirò, Maestà, finché sua figlia non sarà mia moglie!»

Continuarono ancora la strada ed arrivarono fino al lago di diamanti.

«Allora, pecoraio,» disse il re «ti regalerò il bosco d’argento, il castello d’oro ed il lago di diamanti se mi dirai una volta soltanto: 'Alla sua salute, Maestà!'», e poi continuò: «Va bene, birichino,  mia figlia sarà tua moglie, però dopo devi dirmi: 'Alla sua salute, Maestà!'»

Quando tornarono al castello, il re annunciò a tutto il paese la notizia delle nozze di sua figlia con il pecoraio ed invitò tutti i suoi sudditi a partecipare alla cerimonia ed ai festeggiamenti: ci sarebbe stato da bere e mangiare per tutti, specie se tutti gli invitati avessero portato con loro cibi e bevande.

Fecero una cerimonia di matrimonio tale, che la sua fama arrivò ovunque. Il pecoraio dagli occhi di stelle si sedette accanto al re, mangiarono, bevvero, si divertirono con serenità. Quando portarono la carne con il cren, il re starnutì una volta e subito suo genero cominciò a dire velocemente senza fermarsi:

«Alla sua salute, Maestà; alla sua salute, Maestà; alla sua salute, Maestà!» per circa cento volte.

«Ahi, ahi, ahi! Lascia stare, non continuare! Piuttosto ti regalerò tutto il mio paese!»

Subito incoronarono il pecoraio: egli divenne il re. Durante il suo regno la sorte del popolo divenne migliore. Tutti i suoi sudditi l'amarono. Quando egli starnutiva, gli gridavano di cuore e molto volentieri: «Alla sua salute, Maestà!»

Chi non mi crede, verifichi pure!


IL POVERO STIVALAIO ED IL REVENTO

C’era uno stivalaio che aveva tanti figli quanti buchi poteva avere un grande setaccio, quindi, vi dico che ne aveva tantissimi! Per mantenerli, questo povero uomo lavorava dalla mattina presto fino all’alba successiva d’ogni giorno.

Successe che un uomo ricco gli diede un moggio di farina, per compensare il suo faticoso lavoro. Tornando a casa con questo staio di farina si alzò il vento, lo seguì e la portò via tutta. Egli entrò in casa con il moggio perfettamente vuoto.

«Questo è già proprio troppo, andrò a trovare il Revento per protestare per il danno procuratomi... È proprio senza cuore... Come ha potuto avere il coraggio di farmi questo brutto scherzo?!» mormorò tristemente.

Partì lasciando soli i figli, attraversò varie montagne, tanti boschi e valli finché arrivò finalmente ad un prato splendido. Mentre girava la testa per guardare intorno, si accorse che stava arrivando un turbine di vento che portava in alto la polvere della strada. Il povero stivalaio ebbe un’enorme paura, si tolse il cappello e si piegò fino a terra per salvare la propria vita dalla sua violenza.

«Puoi ringraziare che m’hai riconosciuto e salutato con rispetto piegandoti, altrimenti ora saresti il figlio della morte. Sappi che io sono il Revento in persona! Perché sei venuto qua e che cosa vuoi?»

«Mio signore, sono venuto proprio da lei, per chiedere un risarcimento. L’altro giorno ho ricevuto in compenso per la mia gran fatica un moggio di farina, ma strada facendo un suo principe me l’ha soffiata via tutta senza pietà. Ora la mia famiglia soffre la fame.»

«Lascia stare, quel ragazzetto mascalzone si pentirà per questo. Non posso lasciarti così in difficoltà. Vieni da me!»

Così il Revento condusse il povero stivalaio al suo castello, l'ospitò offrendogli da mangiare abbondantemente, poi gli regalò una pecora e disse:

«Quando tornerai a casa, devi dire a questa pecora: 'Scuotiti, berbéci!' - ed ella ti darà una somma di denaro che sarà sufficiente per un intero mese. Ma stai molto attento, finché non arrivi a casa non devi provarlo!»

Il povero uomo saluto il Revento e prese la strada verso casa. Ma non resistette alla sua gran curiosità e fece una prova pronunciando l’ordine. Ascoltate, che meraviglia! La terra intorno alla pecora divenne piena d’oro! Finalmente arrivò all’alloggio di un suo vecchio conoscente che li ospitò per la notte. Lo stivalaio prima d'andar a letto gli disse:

«Mi raccomando, non dire alla pecora: 'Scuotiti, berbéci'!»

Appena l’ospite s’addormentò, il padrone di casa e sua moglie subito ordinarono alla pecora:

«Scuotiti, berbéci!»

Rimasero con la bocca spalancata quando videro che la terra intorno alla bestia divenne piena d’oro. Non aspettarono neanch’un attimo la scambiarono immediatamente con la loro pecora.

La mattina successiva lo stivalaio si svegliò, ringraziò dell’ospitalità e continuò la strada verso casa pieno di speranza. Egli non si accorse dello scambio di animali. Quando giunse a casa, ordinò subito alla pecora:

«Scuotiti, berbéci!»

Ripeté l’ordine dieci volte, venti volte, ma la pecora guardò soltanto i suoi occhi senza scuotersi.

Lo stivalaio ritornò con gran rabbia dal Revento. Entrò direttamente al castello e si lamentò per l’insuccesso. Il Revento gli rispose:

«È vero che non hai fatto come ti ho detto? Tu, povero uomo, non hai aspettato di arrivare a casa prima di pronunciare l’ordine... Adesso ti regalo una tovaglia. Devi dirle: 'Apparecchiati, tovaglia!' - poi sulla tavola troverai tutti i cibi migliori del mondo. Ma stai attento, finché non sei arrivato a casa non pronunciare questa frase!»

Ehi, ehi, il povero uomo anche stavolta non obbedì al Revento: fece di nuovo una prova prima d'arrivare a casa. Si fermò di nuovo a casa del suo conoscente e prima d'andar a dormire gli disse:

«Per carità, non dite mica alla tovaglia: 'Apparecchiati, tovaglia'!»

Il padrone di casa e sua moglie aspettarono con gran impazienza che lo stivalaio s'addormentasse. Quando egli russò profondamente la coppia ordinò subito alla tovaglia:

«Apparecchiati, tovaglia!»

Vedendo la sua magia, la scambiarono con una loro tovaglia che era esattamente uguale.

Il giorno successivo, tornato a casa, subito ordinò alla tovaglia:

«Apparecchiati, tovaglia!»

Ripeté l’ordine dieci volte, cento volte, ma non successe niente.

Non poté fare diversamente che ritornare ancora dal Revento che già lo aspettava. Lo stivalaio, appena arrivò, ricevette un bastoncino in regalo. Il Revento raccomandò nuovamente:

«Stai però molto attento, finché non sei a casa non devi dirgli: 'Gira, gira mio dolce bastoncino; gira, gira molto bene'!»

Naturalmente lo stivalaio anche stavolta fu molto curioso e strada facendo, dopo aver superato le montagne, fece una prova ed ordinò al bastoncino:

«Gira, gira mio dolce bastoncino; gira, gira molto bene!»

Magari se non avesse pronunciato questa frase! Il bastoncino lo percosse dappertutto; il povero uomo fece fatica a star in piedi dalle botte. Egli era molto spaventato e non si accorse di un toro vagabondo e si scontrò anche con esso. Dalla paura non riuscì a dire nient’altro che questa parola:

«Ho-hò-ò-ò-ò!» - ed in quell’istante il bastoncino finalmente si fermò. Così lo stivalaio scoprì la sua gran utilità.

Si fermò di nuovo nella casa del suo conoscente per trascorrere la notte. Prima d'andar a letto anche stavolta gli disse:

«Per carità, non dite al bastoncino: 'Gira, gira mio dolce bastoncino; gira, gira molto bene'!- altrimenti ve ne pentirete.»

Il padrone di casa e sua moglie non pensarono alcuna cosa spiacevole. A mezzanotte la donna svegliò suo marito:

«Józsi*, si svegli! Facciamo una prova con il bastoncino e se sarà di nuovo una bella cosa scambieremo anche questo!»

La coppia portò il bastoncino nella loro camera, chiuse la porta per bene, poi la donna disse:

«Gira, gira mio dolce bastoncino; gira, gira molto bene!»

Subito il bastoncino si mise in veloce movimento e colpì alternativamente il padrone di casa e sua moglie senza dar loro tregua. Essi urlarono dal dolore, erano sfiniti a causa delle botte. Lo stivalaio si svegliò sentendo grida e lamenti, sfondò la porta e disse:

«Vi ho detto di non formulare la frase l’ordine! Adesso però so che voi avete rubato la mia pecora e la mia tovaglia. Meritate che questo bastoncino vi picchi ancora un po'!»

«Ahi-ahi-ahi-ahi! No-o-o-o-o! Le restituiremo tutto! Ordini di fermarsi!» supplicò la coppia in coro e presero immediatamente la pecora e la tovaglia e le diedero al suo legittimo proprietario.

Così lo stivalaio tornò a casa con gran gioia, e da quel momento la sua famiglia non ebbe bisogno di niente, non soffrì più la fame: vissero felici e contenti nel benessere fino alla loro morte.

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* Józsi = Beppe


LA RAGAZZA PIGRA

Dov'era, dove non era, c'era una volta una ragazza ricca che non aveva lavorato mai. Molti la chiesero per moglie, ma sua madre disse agli aspiranti mariti:

«Lasciala stare, non chiederla per moglie, non lavora, non riuscirai a sopravvivere con lei.»

Arrivò un altro aspirante marito, un bel giovanotto. La madre volle mandarlo via, ma egli rispose:

«Che madre è lei che non vuole la felicità di sua figlia? Vuoi essere mia moglie, tu,  bella ragazza?»

«Senz‘altro, molto volentieri!» ella rispose.

Il giovanotto le disse:

«Vieni, andiamo alla chiesa!»

Così il bel giovanotto sposò la ragazza nonostante la madre non volesse.

Nella sua nuova casa la ragazza si comportò come a casa di sua madre: era seduta dalla mattina fino a sera, non lavorava mai, faceva soltanto dondolare le gambe. Non la smuoveva neanche il rimprovero del marito.

Egli pensò:

«Aspetta pure mogliettina! Io t'insegnerò a lavorare!»

Anche la madre del giovane marito si lamentò quando egli rientrava dal prato dopo un intero giorno di lavoro:

«Dolce figlio mio, con questa moglie tu non riuscirai a sopravvivere! Non fa niente, è sta seduta tutto il giorno come una contessa! Sarebbe meglio che tu divorziassi!»

«Cara madre, non posso divorziare, l’ho sposata sapendo che non lavorava: anche sua madre m’ha avvertito. Madre, stia tranquilla, mi lasci stare, io le insegnerò a lavorare!»

Il giorno successivo quando il giovane marito rientrò dal prato dopo l’intero giorno di lavoro egli domandò alla madre:

«Cara madre, oggi quante persone hanno lavorato?»

La madre rispose:

«Dolce figlio mio, abbiamo lavorato in due: tu ed io!»

«Allora mangeremo soltanto noi due!»

Cenarono soltanto loro: madre e figlio: la giovane moglie rimase affamata. La mattina successiva non poté neanche fare colazione.

Appena il giovane uscì di casa, la ragazza sospirò profondamente più volte poi cominciò a pensare. Ad un tratto chiese alla suocera:

«Madre, se preparerò il fuoco, quello sarà un lavoro?»

«Certo, figlia mia, quello sarà un lavoro!»

Così la nuora accese il fuoco. Poi chiese di nuovo:

«Se metterò la legna sul fuoco, quello sarà un lavoro?»

«Sarà un lavoro anche quello, figlia mia!» rispose la vecchia signora.

La nuora portò in casa la legna e la mise sul fuoco. Poi chiese all’anziana donna di nuovo:

«Se andrò a prendere l’acqua, quello sarà un lavoro?»

«Sì, sarà un lavoro anche quello, figlia mia!»

«E se pulirò la casa, anche quello sarà un lavoro?»

«Senz’altro!»

La nuora andò a prendere l’acqua e pulì tutta la casa. L’anziana signora si rasserenò e cominciò a spiegarle tutti i lavori che c’erano da fare in una casa e nei dintorni, la aiutò, le suggerì consigli utili.

Tornò a casa anche il ragazzo. Al momento di mettersi a tavola chiese alla madre:

«Oggi quante persone hanno lavorato?»

«Tre, dolce figlio mio!» rispose con gran gioia l’anziana madre.

«Allora mangeremo in tre!» disse rasserenato.

Si sedettero a tavola, la giovane moglie fu particolarmente felice perché dopo un giorno e mezzo di digiuno aveva una fame da lupo.

A partire da quel giorno lavorarono tutti e tre, così mangiarono in tre e vissero felici finché non morirono. Questa è la fine della fiaba, chi non mi crede, faccia una ricerca!


P a r t e  s e c o n d a

LEGGENDE POPOLARI UNGHERESI


IL PRINCIPE HUNOR SCAGLIA LA FRECCIA CONTRO IL FUOCO

Una sera piena di stelle splendenti, nel Meotide*, Hunor disse al padre di Rosa Selvatica:

«Mio buon padre, a costo della mia vita, rischiando la morte, finché vivrò andrò a cercare notizie della madre di Rosa Selvatica. Chiedo una sola cosa a Voi padre e mio signore: ditemi dove cercarla!»

Il re rispose così:

« Dolce figlio mio, so che sei un grande eroe, ma mia moglie è stata rapita da una strega terribile. L’ha portata oltre il deserto di sabbia in un gran bosco. Al centro di quel bosco si stende un vuoto deserto in cui si trova una roccia scoscesa alla cui cima si eleva il castello della strega. Io la strada non la conosco, ma se tu riuscissi a trovarla e ad arrivare là sarebbe un gran guaio per te, perché quella roccia è la dimora  di tutte le streghe. Se riuscissi ad avvicinarla, esse ti strapperebbero in mille pezzi. Ma io non voglio ciò, perché non desidero né la tua morte, né quella di mia figlia.»

Hunor pensò un attimo e poi disse:

«Non ho paura neanche delle figlie di quelle streghe! Una volta  ho incontrato una di esse: è successo quando ha strappato me e mio fratello Magyar dalle mani di nostra madre. Pagherei tanto per potermi imbattere di nuovo in lei, a faccia a faccia, per combatterla. Finché vivrò, la cercherò e anche se lei avesse sette anime, la ucciderò!»

A causa di queste parole la bella Rosa Selvatica iniziò a piangere. Temeva per la vita di Hunor. Lo amava proprio per il suo buon cuore, per la sua anima coraggiosa, per il suo dolce sguardo.

«Mio buon marito, ti chiedo di partire soltanto fra tre giorni; nel frattempo ti cucirò una camicia, ti cuocerò una focaccia nelle ceneri e ti preparerò una borraccia di pelle di puledro che riempirò con l’acqua del mare Meotide; quando ti stancherai per il lungo viaggio, tu la potrai bere!»

Hunor aspettò con gioia quei tre giorni. Rosa Selvatica cucì la camicia, cosse la focaccia e nella bella borraccia di pelle di puledro versò l’acqua dolce del Meotide. Hunor, dopo aver sellato il suo buon cavallo Rigó, prese la spada, salutò la moglie e partì.

Strada facendo incontrò l’uomo delle bugie e l’uomo della fortuna; divise con loro la sua focaccia e la sua acqua. Gli raccontarono la loro vita, ma purtroppo non riuscirono ad aiutarlo. Così Hunor continuò la sua strada per cercare la dimora delle streghe. Ad un certo punto dopo aver attraversato un gran bosco, si trovò in un deserto. Girò la testa a destra e a sinistra, all’improvviso vide un vecchio seduto sulla carcassa di un cammello. Hunor gli offrì da bere ed il vecchio raccontò la sua triste storia. Hunor così seppe che egli era l’uomo dell’avarizia. Egli finalmente riuscì ad indicargli la strada verso il casolare delle streghe dicendo:

«Riuscirai ad arrivare là soltanto dopo aver legato Notte ed Alba e dopo aver colpito il fuoco delle streghe con l’arco di Alba. Ma dove trovare Notte ed Alba, non lo saprei proprio...» ed egli sparì.

Mentre Hunor guardava intorno, incontrò le madri Lunedì, Martedì, Mercoledì e Venerdì, ma esse non poterono aiutarlo. Alla fine arrivò finalmente madre Sabato, che non conosceva la residenza di Notte ed Alba ma sapeva che riposavano sempre all’ombra di un vecchio pozzo essiccato. Hunor dopo aver ringraziato Sabato per l'aiuto andò a cercarlo, vi si nascose dentro ed aspettò. A mezzanotte egli riuscì a catturarle, le legò al parapetto del pozzo e corse verso la roccia delle streghe. Strada facendo incontrò le arpie che piangevano accanto ai cespugli perché non riuscivano a camminare a causa della cattura di Notte ed Alba. Con l’aiuto della bacchetta magica, ricevuta dall’uomo delle bugie in cambio di qualche pezzo di focaccia e alcuni sorsi d’acqua, dando un colpo sulla roccia ripida riuscì a salire sulla sua cima.

Arrivato sopra, prese in mano l’arco di Alba e scagliò una freccia al centro del fuoco. In quel momento il castello cominciò a crollare con gran rumore. Liberò la madre di Rosa Selvatica, che si trovava nell’ultima stanza, appena in tempo. Con lei ritornò dal pozzo essiccato. Hunor qui liberò Notte ed Alba, poi non si fermò fino al Mare Meotide.**

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* Azov

*  Mar d'Azov


IL CERVO MIRACOLOSO

Successe una volta che i fratelli Hunor e Magyar, durante la caccia, vagarono lontano ed arrivarono nella palude del Mar Meotide. Improvvisamente un cervo si presentò davanti a loro e subito lo inseguirono per catturarlo.

Che magnifico esemplare era! Una femmina meravigliosa che correva veloce come un lampo. Infatti sparì in un attimo. Hunor e Magyar la cercarono ma senza alcun risultato.

Sembrò un sogno: mai avevano visto un cervo così splendido: il suo trofeo era come una corona d’oro che splendeva ai raggi solari; mentre i fratelli, lo guardavano furono quasi accecati.

« Ssss!... ascolta! Che cosa è questa dolce musica?» chiesero in coro l’uno all’altro.

Non era nient’altro che il suono della corona di questa miracolosa bestia: sfuggendo dalla trappola dei fratelli essa si era scontrata con i rami degli alberi e cespugli.

«Eccola!» gridò Hunor al fratello.

«Catturiamola!» reagì Magyar.

Ma il cervo miracoloso fu più veloce di loro e scomparve definitivamente. Hunor e Magyar mentre la cercavano, esplorarono un nuovo territorio ricco di tanti doni naturali: adatto proprio per alimentare i loro animali. Decisero di ritornare su questa terra per vivere. Dopo la ricerca inutile del cervo, ritornarono esausti a casa e chiesero permesso al loro anziano padre di trasferirsi nella zona del Mar Meotide appena scoperta.

Avendo il consenso del vecchio, i fratelli insieme con il loro bestiame vi si trasferirono. Che paradiso era questa zona! Era ricca di erbe, alberi, uccelli, animali selvatici, pesci. Qui vissero tranquillamente, nessuno poté disturbarli anche perché entrare ed uscire da qui non era facile. La provincia di Meotide confinava con la Persia. Hunor e Magyar vissero qui in pace per cinque anni.

Al sesto anno si prepararono e si trasferirono in altre zone. Strada facendo nelle steppe per puro caso trovarono in vicinanza dell’accampamento dei figli incustoditi del re Belár e  le loro mogli. Si stava svolgendo una grande festa: la festa del corno, e queste donne danzavano al ritmo della musica. La festa finì con la forza: gli uomini di Hunor e Magyar le catturarono. Tra i figli delle donne rapinate vi erano anche le due femmine più belle, le figlie di Dula, sovrano degli Alani. Dopo il loro rapimento Hunor prese per moglie l’una, Magyar l’altra e da quest’unione nacquero i discendenti dei due popoli fraterni: gli Unni ed i Magiari...


LA FOSSA DI CSÖRSZ

Tanto, tanto tempo fa, prima della conquista della Patria dei Magiari, quando ancora i Longobardi vivevano sulla terra della Pannonia, il re Rád dominava il popolo. Questo re era proprio un gigante, tutti avevano paura di lui.

Ma il re Federigo con la sua forte armata lo attaccò. Perciò Rád fu costretto a chiamare il popolo in guerra. Inviò un messaggio a Csörsz, re degli Avari, suo alleato per chiedere il suo aiuto. Egli arrivò con tutte le sue armate ed insieme con Rád sconfissero Federigo.

Dopo la battaglia il re Csörsz organizzò un gran banchetto nel suo palazzo. Vi fu un mare di vino da bere, il buon umore non mancò, anzi anche un gobbo si mise a danzare. Soltanto il re Csörsz non ballò, guardò soltanto la bellissima figlia del re Rád, Délibáb*. Non riuscì a togliere il suo sguardo, perché ella era meravigliosa.

Csörsz guardò, guardò la ragazza ed improvvisamente disse al re Rád:

«Ho salvato tuo paese ed il tuo popolo dalla rovina, ora dammi tua figlia, la voglio per moglie!»

«Ella sarà tua se la porterai a casa sull’acqua.»

Il re degli Avari capì bene le parole di Rád e si mise  subito al lavoro col suo popolo: scavarono l’alveo del fiume per portar la moglie a casa sull’acqua.

Lavorarono notte e  giorno senza fermarsi. Ad un tratto venne un gran temporale. Lampi e tuoni, riempirono il cielo. Un lampo folgorò il re Csörsz che cadde da cavallo. Il re degli Avari morì istantaneamente.

I lavori furono interrotti, ma il ricordo del re Csörsz lo custodiscono alcuni luoghi: i paesi di Ároktõ sulla riva del fiume Tibisco ed Árokszállás, che fu costruito all’estremità della fossa, dove il popolo si alloggiò durante il lavoro. La fossa ancora oggi porta il nome del re Csörsz: si chiama la fossa di Csörsz.

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*Délibáb: Miraggio


IL PATTO DI SANGUE

Nell’anno 819° dalla nascita del Signore, Ügyek della stirpe del re Mágóg e che era un condottiero nobile della Scízia, sposò Emes, la figlia del condottiero Önedbelia. Da questo matrimonio nacque un figlio che chiamarono Álmos.

Álmos ricevette questo nome a causa d’un avvenimento portentoso. Sua madre fece un sogno miracoloso: davanti a lei apparve un «turul», l’aquila favolosa, animale tòtem dei Magiari, e predisse la venuta di discendenti reali. Le visioni che si fanno durante il sonno in ungherese si chiamano «álom»*, e anche la nascita del ragazzo fu  predetta dal sogno, perciò lo chiamarono Álmos**.

Álmos divenne un gran bell’uomo, con il viso abbronzato, con gli occhi neri, alto e snello. Egli diventò un soldato buono, generoso, savio e coraggioso. Quando raggiunse la maturità egli divenne il più grande ed il più saggio condottiero tra gli altri della Scízia. Perciò gli affari del paese furono gestiti secondo i suoi consigli.

Álmos sposò la figlia di un nobile condottiero e nacque un figlio, lo chiamarono Árpád e lo portarono con loro in Pannonia.

Infatti il territorio della Scìzia era divenuto piccolo per la numerosa popolazione e non aveva più capacità di accogliere nuovi nati. I capi di sette tribù decisero di lasciare questa terra e cercare un nuovo paese. Scelsero la Pannonia che fu anche di Attila, re degli Unni, antenato di Álmos. Il condottiero Álmos, in particolare, si considerò suo discendente. I capi delle sette tribù fecero un patto di sangue seguendo un’antica tradizione pagana e proferirono il giuramento di eleggere Álmos ed i suoi discendenti principi dei Magiari:

«Da oggi ti eleggiamo nostro capo e dove ti condurrà la fortuna là ti seguiremo.»

Il primo paragrafo del giuramento diceva:

«Finché saremo in vita, anzi finché saranno al mondo i nostri successori, il nostro capo sarà scelto tra i discendenti di Álmos.»

Il secondo paragrafo ordinava:

«Gli animali catturati insieme devono essere divisi tra tutti.»

Il terzo paragrafo:

«Tutti principi che hanno eletto Álmos per loro capo non possono disobbedire ad un suo ordine.»

Il quarto paragrafo:

«Se qualcuno tra i successori tradisse il capo ed alimentasse disarmonia tra il capo ed i suoi parenti, deve perdere il suo sangue come noi abbiamo perso il nostro durante il patto di sangue.»

Infine col quinto paragrafo così terminava il giuramento:

«Se qualcuno tra i successori tradisse il patto di sangue, sia eternamente maledetto.»

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* álom = sogno

** Álmos = di so…gno


LA CONQUISTA DELLA PATRIA

I Magiari furono costretti a partire dall’Etelköz*, luogo in cui avevano fatto il patto di sangue, per trovare una nuova patria. Essi erano circondati da due popoli battaglieri: ad occidente dai Bulgari che vivevano sulla riva del basso Danubio, ad oriente invece dai Peceneghi. Con quest’ultimi avevano già fatto la guerra a Levédia. I Magiari non erano riusciti a difendersi contro di essi, nonostante che con il patto di sangue la loro forza fosse aumentata notevolmente. Perciò abbandonando l’Etelköz, il capo dei Magiari, Álmos, condusse il suo popolo - guerrieri, donne, bambini - fino alle catene dei Carpazi. Qui egli consegnò il potere a suo figlio, il principe Árpád che guidò i Magiari, conquistatori della patria, nel territorio dell’Ungheria attuale. Tanti popoli si trovavano nel bacino dei Carpazi prima della conquista della patria; tra essi i più numerosi erano i Moravi, i Bulgari, gli Ávari e  gli Slavi.

Secondo le leggende il principe Árpád inviò un cavallo bianco con una sella dorata e con una briglia decorata con  diamanti in dono al re dei Moravi. Il re moravo gradì molto i regali del principe Árpád e disse al legato magiaro:

«Rispetto il tuo capo, devi dirgli che ho gradito i suoi regali. Ne deduco che egli vuole essere il mio servo obbediente.»

«Lo riferirò, signore.» sorrise il legato. Ma dopo breve tempo egli ritornò.

«Che cos’hai portato di nuovo?» s’incuriosì il re dei Moravi.

«Un messaggio dal capo dei Magiari. Egli dice di sparire dal tuo paese perché tu l’hai venduto?!»

«Come mai l’ho venduto?!»

«Eh, sì, l’hai venduto. Noi l’abbiamo comprato in cambio del cavallo bianco dotato della sella dorata e della briglia decorata con i diamanti.»

Il re dei Moravi s’arrabbiò e rispose:

«Farò uccidere quel cavallo bianco, farò buttare la sella dorata nel fiume e farò nascondere la briglie nell’erba.»

«Non fa niente. La carne del cavallo ucciso sarà mangiata dai nostri cani, la sella dorata la pescheranno i nostri pescatori e la briglia con i diamanti la troveranno i nostri soldati.»

Allora il re fece suonare il corno ma non ottenne niente. Anzi, il suo esercito fu cacciato via dai Magiari in un attimo come un forte vento avrebbe fatto con la paglia.

Dopo questo episodio Árpád inviò ricchi doni al re dei Bulgari. Anche questi fu molto felice per i regali offerti da Árpád e chiese al legato magiaro:

«Che cosa dovrei dare in cambio?»

«Il mio capo non vuole niente, soltanto una brocca dell’acqua dolce del Tibisco, un pugno di terra del campo e d’erba del prato.» rispose il legato.

«Che modesto il tuo padrone, l’ospiterei molto volentieri!» rispose il re bulgaro.

Si meravigliò molto il re dei Bulgari quando per risposta i Magiari si presentarono come ospiti con l’intero esercito armato di spade e di clave.

«Che cosa volete?» chiese spaventato.

«Vogliamo la tua patria! Ci hai mandato in pegno un pugno di terra, uno d’erba ed una brocca d’acqua.» risposero i Magiari.

Árpád con i suoi guerrieri conquistò il Paese: nella battaglia di Alpár vinsero contro i Bulgari.

Árpád non assicurò soltanto la terra al suo popolo, ma diede ad esso anche le leggi che poterono rafforzare la nuova patria. Alla pianura di Pusztaszer** fu organizzata la prima assemblea magiara (che predecedette il Parlamento) in cui fu diviso il territorio del bacino dei Carpazi secondo i meriti dei conquistatori della Patria.

Árpád ed i suoi successori assoggettarono quindi la popolazione che, insieme con i Magiari, si mise a coltivare la terra, a pascolare le mandrie oppure a pescare ed a cacciare nelle regioni in quel tempo coperte di boschi, ricche di pesci e di uccelli acquatici, mentre una casta di combattenti cercava la fortuna nelle spedizioni militari che procuravano bottini. I veloci cavalieri ungheresi che combattevano con le frecce fecero la loro comparsa dappertutto in Europa, per Pirenei all’Impero Bizantino, o come alleati dei principi dell’Europa occidentale, oppure solo per raccogliere prede. I Magiari fecero scorrerie adottando un orrendo modo di combattere e terrorizzando tutta l’Europa. I cavalieri al galoppo fingevano di fuggire poi, volgendosi indietro sulla sella, scoccavano frecce mortali. I loro archi particolari tiravano le frecce a centinaia di metri. Nelle chiese dell’Europa occidentale si sentiva spesso la preghiera: «Dalle frecce dei Magiari salvaci, oh, Signor!» Questi feroci cavalieri non risparmiarono neanche l’Italia: attraversando la pianura padana travolsero Berengario*** e dopo pochi mesi si ritirarono lasciando lo stesso ricordo degli Unni.

A porre fine alle loro scorrerie furono due sconfitte, per opera della cavalleria tedesca negli anni 933 e 955, rispettivamente a Merseburg e ad Augsburg.

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* Etelköz: il territorio esteso tra il basso Danubio ed il Don

** Pusztaszer: luogo storico dell’insediamento di Magiari conquistatori della Patria sulla Grande Pianura Ungherese, sulla «Puszta», tra il Danubio e Tibisco

*** La battaglia con Berengario I si svolse a Tebbia il 24 ottobre 899


LA PRINCIPESSA SAROLTA

La moglie del principe Géza*, la bellissima Sarolta, aveva un carattere molto duro, tanto da tenere suo marito e l’intero Paese in pugno. Riusciva a bere tanto senza ubriacarsi, mentre gli uomini cadevano sotto il tavolo privi di sensi a causa dell’alcol, cavalcava bene come un cavaliere. Una volta, quando ella s’arrabbiò, diede una botta ad un uomo che quasi morì a seguito dell’aggressione.

Questa dura signora s’occupò tenacemente della conversione al cristianesimo del popolo magiaro pagano e della pace con i popoli dell’occidente. Perciò invitò Adalberto, il servo fedele di Dio, per convincere suo marito, il principe Géza, a battezzarsi. Nello stesso giorno molti nobili di rango alto e più basso si battezzarono per diventare cattolici.

Ma la maggior parte dei Magiari volle coltivare l’antica fede pagana ed in nessun modo accettò l’insegnamento cristiano ed il nuovo ordine. Tanti curiosi, anche sovrani dalle nazioni vicine arrivarono in terra magiara per vedere con i loro occhi come il popolo magiaro si sarebbe piegato davanti a Cristo.

Il principe Géza inviò le sue truppe nell’intero paese. Dopo mandò i messaggeri per annunciare:

«Ascoltate, Magiari, ascoltate! Abbracciate la religione del vero Dio ed abbandonate la vostra fede antica. L’ha fatto anche il principe Géza e sua moglie. Soltanto così potrete voi Magiari sopravvivere in questo territorio e solo così salverete la vostra anima ed andrete in Paradiso! I soldati uccideranno con la spada chi non vuole capire, essi sono entrati nel nostro paese proprio per questo!»

Tutti capirono il messaggio. Alcuni si convertirono al cristianesimo dalla paura, mentre altri abbandonarono il paganesimo con la convinzione di salvare l’anima.

La principessa Sarolta educò suo figlio, di nome Vajk, secondo le regole del cristianesimo e nel battesimo egli ricevette il nome István.

Anche se Sarolta fu di carattere duro, ella non riuscì a cacciare definitivamente il sentimento pagano dall’anima di suo marito. Il principe Géza, il sovrano dei Magiari, quindi servì due dèi: quello dei pagani e quello dei cristiani. Una volta un suo sacerdote gli disse:

«Chi  ha il culto degli idoli pagani, perderà la sua anima e cadrà nell’inferno!»

Il principe Géza così rispose al sacerdote:

«Ho abbastanza da offrire in sacrificio. Sono un gran signore, perciò nello stesso tempo posso offrire a due dèi!»

Offriva in sacrificio ad entrambi con cuore. Fece anche da esempio al suo popolo; nel suo tempo il paganesimo ed il cristianesimo convissero nella terra dei Magiari, come dice il testo della Sacra Scrittura : «Il lupo e la pecora pascoleranno insieme.»

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* Géza (972-997), principe, sovrano dei Magiari, padre di István (Stefano) I, il Santo (997-1038), primo re d’Ungheria


LA CORONA UNGHERESE

Il re Sant’István1 sapeva molto bene che il suo popolo  avrebbe potuto evitare la scomparsa solo adottando le tradizioni occidentali ed abbracciando la religione cristiana. Così con grande impegno continuò l’opera di suo padre, Géza, che si era reso conto che o gli Ungheresi pagani si sarebbero inseriti nell’Europa feudale, abbracciando il cristianesimo, oppure sarebbero periti.

Quando i sacerdoti dei paesi occidentali appresero la notizia che il re István avrebbe voluto convertire il suo popolo al cristianesimo essi provarono una gran gioia. Partirono immediatamente in gran numero da ogni parte per l’Ungheria per contribuire a condurre i Magiari pagani sulla strada giusta. Con la collaborazione dei missionari occidentali István riuscì a convertire il suo popolo al cristianesimo. Volle far benedire questa sua opera dal papa, perciò chiamò a sé l’abbate Astrik e gli disse:

«Padre mio, è arrivato il tempo per chiedere al papa la sua benedizione. Ma non voglio soltanto questa, ci vorrebbe anche una corona per i re ungheresi. Devono anch’essi essere incoronati come succede a tutti gli altri sovrani cristiani.

Padre mio, vai quindi a Roma e chiedi la benedizione del papa e la corona!»

«Sia come vuoi tu» gli rispose l’abbate e partì immediatamente per Roma.

Egli arrivò rapidamente, ma il legato del  principe polacco lo precedette: anch’egli era venuto a chiedere la corona per il suo sovrano.

La corona era già pronta per essere inviata al principe polacco,  quando il papa Silvestro II  una notte fece un sogno miracoloso. L’Angelo del Signore si presentò davanti a lui e gli disse:

«Domani arriveranno da te i legati d’un popolo sconosciuto per chiedere una corona per il loro principe. Devi dare la corona già pronta ad essi invece che ai polacchi, perché spetta a loro.»

Il giorno successivo l’abbate Astrik in nome del re István si presentò davanti al papa e chiese la sua benedizione e la corona. Il papa ricordò le parole dell’angelo e si piegò davanti alla volontà di Dio e disse all’abbate:

«Io sono apostolico, il principe István è invece l’apostolo.» e con queste parole consegnò la corona all’abbate.

Che bel regalo fece il papa al primo re d’Ungheria! La corona d’oro splendeva, al centro era raffigurata l’immagine del Redentore, nel cerchio invece quella degli apostoli. Sopra la testa del Salvatore si vedeva il sole, la luna e le stelle splendenti. Così il primo re d’Ungheria fu incoronato con questa splendente corona durante una cerimonia solenne, poi gli emblemi dell’incoronazione furono custoditi a Székesfehérvár. Furono ripresi per le grandi festività e nelle cerimonie d’incoronazione dei re successivi.

Questa corona fu la ricchezza del Paese, della terra magiara e la felicità del suo popolo.

Quando il re Imre2 entrò senza armatura nel campo militare di suo fratello minore, Endre3, nessuno osò alzare la mano contro di lui perché egli aveva sul capo la corona.

Gli antichi re la custodirono con gran cura, come se fosse la luce dei loro occhi.

Quando l’ultimo re arpadiano, Endre III, morì, arrivarono tre pretendenti stranieri al trono: il ceco Venceslao, il tedesco Otto e l’italiano Carlo Roberto.

Il re Venceslao irruppe nel paese con un grande esercito ed occupò il forte di Buda. Finse di avere intenzioni pacifiche: chiese ai nobili magiari  il permesso per suo figlio di indossare tutti gli indumenti ed accessori dei re, soltanto per fare una prova. Essi glielo concessero, ma la prova si trasformò in un furto: Venceslao con la corona sequestrò anche tutti i tesori reali.

Dopo  questo fatto il principe bavarese Otto, che era il nipote del re Béla IV4, non ebbe pace e riconquistò tutti i tesori per l’incoronazione dal re ceco. Partì di notte per non attirare l’attenzione di nessuno. Temendo per la corona, la nascose accuratamente nella borraccia che fissò fortemente alla sella. Ma verso l’alba si accorse di averla perduta.

«La corona si è persa!»

Torna indietro! Corri e cerca la corona! C’erano tanti viaggiatori sulla strada che Otto non aveva alcuna speranza di trovarla... Ma invece sì, che fortuna, un suo piccolo vassallo la trovò: la borraccia giaceva in una pozzanghera. Che gioia! Riuscirono a ritrovare la corona nella borraccia!

Gli accompagnatori del principe dissero:

«Dio ha fatto un miracolo! Adesso è chiaro a chi spetta questa corona!»

I soldati invece mormorarono soltanto sotto i baffi:

«Non è un buon segno! È un brutto presentimento la perdita della corona. Magari se la corona potesse parlare! Questa corona quante brutte cose potrebbe dire a partire dalle rapine, truffe, fino agli imbrogli!...»

La regina Erzsébet5, la vedova del re Albert, ordinò ad una dama di corte di far rubare la corona. Ad Ilona Kottáner6 non lo dovette dire due volte! Ella subito fece amicizia strettissima con un soldato che in precedenza aveva fatto il fabbro ferraio e lo condusse nel forte di Visegrád in cui era custodita. Magari l’avessero custodita bene! Il fabbro e un suo compagno riuscirono ad entrare nel forte una notte attraverso la cappella del castello. Con la chiave ricevuta dalla donna entrarono nella sala in cui era nascosta. La donna pregò nella cappella per la riuscita del furto mentre i ladri, suoi complici, s'occupavano d’aprire la custodia.

I guardiani per loro fortuna non si videro, perciò poterono agire indisturbati. Ma non fu facile impadronirsi di essa: il lucchetto della custodia non voleva aprirsi in nessun modo. Allora i due balordi con un martello lo ruppero. Il rumore fece eco in tutto il palazzo, ma nessuno si accorse dell’accaduto. La nascosero in un cuscino rosso di velluto e la portarono via dal castello.

Il giorno successivo Ilona Kottáner partì per raggiungere la regina che si trovava nella fortezza di Komárom. Arrivò a tarda notte e poté finalmente consegnarle la corona. La regina fece incoronare suo figlio di tre mesi, László7, a Székesfehérvár. Appena terminata la cerimonia, la gente che vi aveva partecipato dovette fuggire insieme con la regina perché stava arrivando l’esercito di Ulászló8. Si rifugiò al castello di Mihályi, vicino a Kapuvár. La regina Erzsébet nascose la corona, ma non ebbe pace e decise di trasferirsi all’estero.

L’imperatore Frigyes9  III le diede duemilacinquecento fiorini in pegno. Quando Mátyás volle riscattarla, Frigyes ne pretese settantamila! Che cosa si poteva fare? Nient'altro che riscattare la corona con un'alta somma di denaro; l’anno successivo l’anziano Dénes Széchy10  con essa  incoronò il giovane re Mátyás11.

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1 Sant’István: Santo Stefano 2 Imre: Emerico  3 Endre: Andrea  4 Béla: Bela, Adalberto  5 Erzsébet: Elisabetta  6 Ilona Kottáner: Elena Kottáner   7 László: Ladislao  8 Ulászló: Vladislav   9 Frigyes: Frederico, Frederigo   10 Dénes Széchy: Dionigi Széchy   11 Mátyás: Mattia


IL RE MÁTYÁS VENNE OSPITATO

Un giorno il re Mátyás*, con i suoi compagni di caccia, si trovava nei boschi della Selva Baconia. Era circa  mezzogiorno, il suo cuoco stava preparando il pranzo. Ma il re Mátyás andò sempre più avanti nella foresta finché perse la strada. Lo colse la notte ed egli non trovò più i suoi amici. Era molto stanco, fiacco. Ad un tratto, finalmente, vide una luce tremolante e la seguì. Arrivò in una casa modesta.

«Vado a chiedere alloggio per la notte.» pensò il re e bussò alla porta.

Una signora anziana aprì la porta ed il re la salutò senza scoprire la sua identità:

«Buonasera, mia cara vecchietta!»

«Buonasera anche a te, figliolo! Qual buon vento ti porta qui?»

«Ho perso la strada. Stavo cacciando con gli amici e non li trovo più...»

«Figliolo, se non li hai trovati in pieno giorno, ora, al buio non potresti affatto trovarli. Eccoti questa panca per sostare fino alla mattina. Però, non posso darti niente da mangiare... Ma sì invece!... Un pollo ce l’ho, te lo potrò preparare...»

La vecchietta sgozzò l’unico pollo, lo pelò e preparò un brodo eccellente, molto saporito. Il cuore di Mátyás  si riscaldò quando l’anziana signora gli mise davanti il brodo squisito ed appetitoso. Il re Mátyás stava contando le gocce d’oro di grasso sulla superficie del brodo, poi disse:

«Sai, vecchietta, chi sono?... Io sono il re Mátyás in persona!...»

«Oh, figliolo! Ti prego di non essere arrabbiato con me perché non t’ho riconosciuto e non t’ho trattato con il dovuto rispetto!»

«Sono molto contento di te, vecchietta, perché hai sgozzato il tuo unico pollo per preparare il brodo per accontentare il tuo ospite. Per ringraziarti di questo tuo gesto ti darò tanto oro quante sono le gocce di grasso che imperlano il brodo nel mio piatto.» E il re Mátyás prese il sacco di denari e contò le monete d’oro fino all’ultimo pezzo.

In quel momento entrarono in casa i suoi compagni di caccia e dissero in coro:

«Oh, Maestà, t'abbiamo cercato ovunque. Perché ci hai lasciato per così lungo tempo? Siamo stati tanto preoccupati per te!»

Appena pronunciate queste parole, scoprirono le monete d’oro sul tavolo e guardarono il re Mátyás aspettando una risposta. Egli  raccontò loro perché la vecchietta veniva così riccamente premiata.

«Preparerò anch’io al mio re un brodo così grasso che non esiterà a darmi delle monete d’oro dal suo sacco!» - pensò lo sguattero del re dentro di sé.

Poco dopo tornarono tutti al palazzo reale. Il giorno successivo lo sguattero fece preparare il brodo di pollo. Quando lo mise davanti al re Mátyás, il sovrano magiaro capì subito da dove tirasse il vento e s’arrabbiò molto:

«Tu, mascalzone, hai sciupato il brodo! Non posso mangiarlo: è pienissimo di grasso! Non sei più il mio sguattero! Vattene dove vuoi! Non ti voglio vedere più!»

Egli uscì chinando il capo e lasciò la corte per sempre. Lo sguattero voleva molto oro ma non ne ricevette affatto!...

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* Mátyás Korvin = Mattia Corvino (regnò dal 1458 al 1490), marito della principessa napoletana Beatrice d’Aragona, fu un re molto amato dal popolo magiaro che lo nominò anche il Re Giusto. Il suo regno fu uno dei momenti più felici della storia ungherese


IL RE MÁTYÁS ED IL MAESTRO-CANTORE

Durante il suo regno il re Mátyás spesso vagò per l’intero paese travestito, nessuno lo riconobbe. Una sera egli arrivò in un paesino. Entrò nell’osteria per chiedere alloggio per la notte nel posto migliore.

L’oste gli disse:

«In questo paese si può trovare l’alloggio migliore dal maestro. Egli ha una famiglia numerosa, è un uomo povero, ma con un cuore d’oro. Provi da lui, forse egli può ospitarla.»

Mátyás andò dal maestro. Egli l’accolse con gran calore e gli offrì l’alloggio. Poi chiese al re:

«Ha fame?»

Il re Mátyás gli rispose:

«Eh, sì, non ho la pancia piena!»

Allora il maestro chiese permesso di uscire un attimo. Corse all’osteria, comprò un po’ di ricotta amara, un po’ di salsiccia, un po’ di lardo con peperoncino ed alla fine un po’ di pane morbido. Tornò a casa con la spesa, sistemò i cibi su un piatto aggiungendo un po’ di verdura sott’aceto e portò tutto all’ospite. Cenarono entrambi. Dopo la cena parlarono un  po’ della vita del paesino, del magro stipendio del maestro e poi si ritirarono a dormire.

Il re Mátyás s'alzava sempre molto presto, anche stavolta fece così e si avviò direttamente all’osteria. Entrando nel locale girò gli occhi e scorse la giacca del maestro-cantore appesa al muro. Il re la riconobbe: infatti egli l’indossava quando lo aveva accolto a casa sua. Mátyás si rivolse all’oste:

«È in vendita questa giacca?»

«No, signore. Il cantore ieri sera l’ha lasciata in pegno perché doveva fare la spesa per dar da mangiare ad un suo ospite.»

Quando Mátyás ritornò a Buda nel suo castello, scrisse subito una lettera al maestro-cantore  chiedendogli di presentarsi a corte. Il maestro si spaventò molto e si chiese:

«Che cosa vuole da me il re? Come può conoscermi?»

Il maestro col cuore in gola si preparò per il lungo viaggio.

Nel frattempo il re Mátyás invitò i suoi nobili a presentarsi al castello e ordinò loro:

«Miei cari signori, vi chiedo di mettere nella tasca interna della vostra giacca una cifra notevole, secondo la vostra possibilità! Sappiate, al pranzo sarà presente un signore. Dopo il pranzo io ballerò con quest’uomo e vi prego di imitarmi!»

Il maestro arrivò esattamente all'ora di pranzo. Tremava dalla paura al pensare di cosa gli sarebbe successo. Provò un grandissimo spavento quando seppe dal re che avrebbero pranzato insieme. Dal timore il povero cantore stuzzicò appena i cibi. Mátyás l'invitò frequentemente a mangiare ed a bere il magnifico e famoso vino «Aszú di Tokaj», detto brevemente «tokaji».

Verso la fine del pranzo una banda di virtuosi musicisti tzigani iniziò a suonare le melodie focose della czardas, una danza popolare. In quel momento il re s'alzò, tolse la sua giacca e l’appoggiò sulle spalle del maestro ed iniziò a ballare. Tutti i nobili presenti al pranzo seguendo l’esempio di Mátyás tolsero la loro giacca, lo sistemarono sulle spalle del maestro e ballarono con lui. Il povero cantore dal peso delle giacche, con i soldi nelle tasche, quasi crollò: fece fatica a stare in piedi.

Alla fine della danza il re Mátyás chiese al maestro:

«Ricorda quella sera quando lei ospitò un vagabondo nella sua casa? Quando lei per dar mangiare al suo ospite lasciò in pegno la sua giacca all’oste in cambio di alimenti? Sappia, caro maestro, quel vagabondo ero io: lei ha dato alloggio e cibo proprio a me. Per questo suo nobile gesto adesso tutte queste giacche che contengono denaro sono sue! Ed ora finché lei vivrà, non avrà più bisogno di lasciar la sua giacca in pegno. Ora, in nome del buon Dio, torni a casa e non dimentichi il re Mátyás!


GLI ZINGARI CHE DIEDERO ALLOGGIO AL RE MÁTYÁS

Il re Mátyás proibì al popolo di dare alloggio ai viandanti; fu consentito soltanto nel territorio della contea. Per controllare il comportamento del popolo nei confronti di quest’ordine, il re si travestì da zingaro musicista, prese un violino e vagabondò da un paese ad un altro. Così arrivò in una casa di zingari:

«Buonasera, cognata mia! Dov’è mio cognato?»

«È via per suonare il violino.»

«Mia cara cognata, dormirei volentieri da voi stanotte!»

«Oh, non si può! Se lo scoprisse il re Mátyás, c’impiccherebbe!»

«Andrò via prestissimo.»

«Eh, allora che cosa facciamo?!» Prese della paglia e fece il  letto all’ospite. Il re Mátyás si coricò e s’addormentò.

All’alba lo zingaro rientrò a casa.

«Moglie, chi è questo?» le chiese.

«È mio cognato!»

Lo zingaro allora  svegliò l’ospite e disse alla moglie:

«Porta qui il cavolo cappuccio ripieno, la focaccia ed il pane!»

Mangiarono con gran appetito, poi  andarono a letto, perché era ancora l’alba.

Appena schiarì il cielo, il re Mátyás li salutò:

«Addio, cari cognato e  cognata!»

«Non dire a nessuno che hai dormito da noi!»

«Per carità! Non mi fermo in questo paese, me ne vado oltre.»

Per molto tempo lo zingaro e sua moglie vissero senza problemi. Ma un giorno arrivò una lettera in cui si trovava l’invito a presentarsi davanti al re Mátyás.

«Ahi, ahi, ahi, ahi! Che cosa ci succederà ora? Tuo cognato ci ha fatto proprio male! Il re Mátyás ora c’impiccherà!» - si preoccupò il marito.

I coniugi non ebbero altra scelta, dovettero andare al palazzo reale. Appena si presentarono, il re li fece chiudere in una cella della prigione. Ad un tratto anche il re Mátyás venne chiuso nella stessa cella insieme con gli zingari: egli indossava gli stessi vestiti di quella sera,  aveva sotto le ascelle lo stesso violino di quando era stato ospitato dalla coppia. Riconoscendolo, i coniugi lo attaccarono e picchiarono gridando quanto potevano:

«Vai al diavolo, tu nasone! A causa tua Mátyás c’impiccherà!»

Il re, per sua fortuna, fu portato via immediatamente perché, se fosse rimasto ancora, la coppia sicuramente l’avrebbe picchiato a morte!

Passarono alcune ore, poi la coppia fu chiamata davanti al re Mátyás che li interrogò:

«Non sapevate del divieto d'ospitare? Non si può dare alloggio a nessuno!»

«Oh, Maestà! È arrivato il nostro povero cognato, aveva male ad una gamba. Egli non poteva andarsene! Abbiamo avuto pietà per lui, per questo l’abbiamo ospitato!»

«Gli avete dato anche la cena!»

«Sì, Maestà, lo ammettiamo» rispose la donna.

«Che cosa gli hai dato da  mangiare?»

«Maestà, gli ho dato un po’ di cavolo cappuccio ripieno di carne, un po’ di focaccia ed un po’ di pane.»

«Ed ora potresti di nuovo cucinare quel cavolo cappuccio ripieno di carne?»

«Oh, mio sovrano, potrei farlo se avessi gli ingredienti!»

Subito la zingara si apprestò a cucinare ed il re ordinò al suo cuoco reale di mettere a disposizione tutti gli ingredienti di cui la donna avesse bisogno.

Quando il cavolo cappuccio fu pronto, Mátyás invitò alla tavola tutti i suoi ministri. Dopo avere mangiato, il re Mátyás disse alla zingara:

«Adesso prepara una focaccia grande come la ruota della carrozza!»

Quando la focaccia fu pronta, Mátyás tolse la mollica e la riempì con le monete d’oro. La consegnò ai coniugi e ordinò loro:

«Che nessuno vi veda mentre tagliate questa focaccia, dovete esserci  soltanto voi due! Se saprò che avete  fatto diversamente, v'impiccherò! Quando siete a casa, tagliatela subito!»

Il re fece preparare una carrozza, la caricò degli alimenti e fece portare a casa i coniugi. Quando la coppia arrivò, rimandò indietro il carrettiere ed essi tagliarono la focaccia. Gli zingari si meravigliarono, fu una gran sorpresa: dalla focaccia uscirono le innumerevoli monete d’oro! I due ricordarono il re Mátyás fino alla loro morte ...


A BUDA SOLO UNA VOLTA C’ERA IL MERCATO DEI CANI

Una volta il re Mátyás, mentre girava in un campo, vide un povero uomo arare la terra con l’aiuto di due magri cavalli malmessi. Poveretti, facevano fatica a tirare l’aratro!

Mátyás salutò l’uomo:

«Dio vi dia il buon giorno e buon lavoro! Riesce a tirarlo?»

Egli rispose così:

«Dio vi dia il buon giorno! Io potrei pure tirarlo, ma queste due povere bestie sono tanto deboli, che non lo faranno a lungo! Ogni minuto aspetto la loro morte...»

«Perché non gli date da mangiare?»

«Ahi, biada, biada! Magari la mia famiglia avesse un po’ di pane, ma né essa, né i cavalli hanno da mangiare!»

Il vicino del povero uomo era molto ricco. Anch’egli si mise ad arare con quattro cavalli ben nutriti. Essi quasi volarono con l’aratro.

Il re Mátyás disse al povero contadino:

«Perché non chiamate il vicino ad aiutarvi?»

«Eh, egli è un ricco contadino molto orgoglioso, non mi rivolge neanche la parola! È geloso anche dell’aria che noi poveri respiriamo.»

Allora il re gli suggerì una cosa:

«Ascoltatemi! Vendete questi cavalli e comprate dei cani! Non importa di che razza, è importante che ne acquistiate tanti quanto potete  con la cifra ricevuta per queste due povere bestie. Poi nel giorno del mercato dei cani venite a Buda con essi, e fermatevi proprio davanti al palazzo del re Mátyás.»

Il povero contadino obbedì allo sconosciuto. Comprò tanti cani quanto poteva, anzi alcuni glieli regalarono pur di liberarsi di essi. Con loro partì per Buda proprio il giorno del mercato dei cani.

In quel giorno Mátyás indisse una riunione di tutti i nobili nel palazzo reale e li obbligò a comprare almeno un cane da quel povero contadino. Essi non potevano pagare per un cane meno di venti fiorini, ma se qualcuno avesse pagato per uno di essi duecento fiorini sarebbe stata un’azione nobile!

Il primo cane fu comprato da Mátyás in persona e pagò una fortuna per quella bestia. I nobili fecero la stessa cosa facendo a gara per comprare e pagare di più. Così quei cani furono venduti in un attimo. Il povero contadino poté ritornare a casa  felice con una borraccia piena di soldi!

Questa notizia arrivò anche alle orecchie del ricco contadino. Perciò anch’egli vendette i suoi cavalli belli e ben nutriti,  ma non soltanto quelli, anche due meravigliosi puledri e comprò molti più cani di quanti avesse acquistati il suo povero vicino. Assunse anche degli aguzzini e si presentò a Buda, davanti al re, con l’intenzione d'organizzare un mercato di cani.

Ascoltandolo, il re Mátyás gli rispose:

«Ahi, caro amico mio, a Buda c’è stato il mercato dei cani soltanto una volta e non ci sarà più in futuro! Faccia quel che vuole con i suoi animali!»

A seguito di questa risposta del re, per rabbia cacciò via tutti i cani, tornò a casa furioso e fino alla sua morte maledisse i mercati dei cani di Buda.


IL RE DEI CONTADINI

L’enorme Impero Ottomano faceva paura al mondo. L’esercito turco aveva una fama d’invincibilità che faceva tremare tutta l’Europa. Perciò, quando il papa vide che la minaccia dei turchi non era affatto uno scherzo, immediatamente decise d’entrare in azione.

Nella primavera del 1514 inviò ad Esztergom1 una Bolla Pontificia con cui invitava Tamás Bakócz2, l’arcivescovo ungherese, ad organizzare una Crociata contro i turchi promettendo la remissione dei peccati a tutti coloro che avrebbero aderito.

Piccoli e grandi gruppi di combattenti si riunirono nei punti d’incontro prestabiliti, ma la maggior parte di essi prese la strada del prato di Rákos. In breve tempo sotto le mura di Buda una gran folla di contadini aspettava armata di strumenti vari tra cui  bastoni, zappe, falci, trebbie dotate di viti. Questa gente era motivata dall’amore per la patria, dalla convinzione religiosa e dalla gran miseria in cui era costretta a vivere dopo la morte del gran Re Giusto, Mátyás Korvin, avvenuta nel 1490. In questo grande esercito oltre ai contadini si trovarono anche artigiani, soldati mercenari non retribuiti e gli aiduchi. Tra i contadini una eroica guardia di confine ebbe una popolarità sempre crescente: era György Dózsa3, d’origine székely della Transilvania che condusse i gruppi di cavalleria e combatté contro i turchi con gran successo a Nándorfehérvár4 e per questo ricevette il titolo di nobile dal re. Dózsa divenne la guida dell’enorme esercito di contadini che raggiunse in totale ottantamila membri.

In questo esercito però mancavano i nobili, ad eccezione di alcuni coraggiosi tra la piccola nobiltà. I grandi feudatari non presero sul serio il pericolo turco, anzi ebbero piuttosto paura dell’esercito dei contadini che minacciava la loro vita. Perciò l’arcivescovo Bakócz ritirò la Bolla del papa che sollecitava la Crociata ed insieme con i nobili ordinò ai contadini di tornare a casa dai loro padroni per riprendere il lavoro. Invece il popolo di Dózsa non obbedì più: si era  reso conto delle ingiustizie subite dai padroni. Si rivoltò contro essi invece che contro i turchi. Dózsa s’arrabbiò per la lettera inviatagli da Bakócz, che ricevette quando si trovava a Békés, che gli proibiva di reclutare i contadini per le Crociate e disse: «Io non sono né un bambino, né un  matto. Nessuno mi scriva una lettera così! Ora prometto al mio Dio di punire i nobili!»

Anche nelle messe domenicali i preti predicarono la volontà dell’arcivescovo Bakócz dicendo ai fedeli: «Liberateci dalle vostre armi e tornate a casa in pace!» Sentendo queste parole i contadini arrabbiati risposero gridando: «Non mettiamo giù le armi, non torniamo indietro!» Così la crociata contro i turchi si trasformò in guerra dei contadini contro i nobili. La tensione divenne sempre più grande, anche l’anima di Dózsa si surriscaldò. Egli decise assieme ai suoi soldati di uscire da Buda per dirigersi alla Gran Pianura, verso la città di Szeged. Quando il suo esercito arrivò a Cegléd, la popolazione della città lo salutò con grane entusiasmo gridando: «Evviva l’esercito di Dózsa!... Evviva György Dózsa!...» Tutti vollero sentire la voce del gran Dózsa che nella piazza della città così parlò ai cittadini:

«I nobili  vi hanno privato dei vostri diritti umani, vi hanno derubato!... Voi lavorate sulle loro terre, nonostante ciò non vi rimane niente: soltanto la fame e la vita da servi!... Fino a quando riuscirete a sopportare tutto questo?! Seguite Dio che vi ha dato la vostra libertà, ora vi ha riunito  e vi ha dato le armi. È ora il momento! Forza, attaccate i vostri padroni, essi sono i vostri nemici! Cacciateli via!... Noi ora non ci fermiamo, ci vendichiamo, ed io sarò con voi! Vi libererò dalla servitù, dalle vostre sofferenze! Insieme vinceremo!...»

«Evviva Dózsa, il re dei contadini!» - gridarono  unitamente tutti quelli che lo ascoltavano.

Non rimasero però senza far niente neanche i grandi feudatari e s'organizzarono contro l’esercito di Dózsa. All’inizio l’esercito dei contadini ottenne alcune vittorie contro i nobili; di conseguenza il Transdanubio, l’Alta Ungheria e la Transilvania vennero coperti dalle fiamme. Alla fine, purtroppo, l’esercito dei nobili, che era meglio attrezzato di armi, batté i contadini. Per questa vittoria poterono ringraziare particolarmente l’esercito di János Szapolyai, voivoda di Transilvania, che arrivò in tempo in aiuto dei nobili nella città di Temesvár5 .

I cavalieri di Szapolyai catturarono lo sfortunato Dózsa, ferito, che venne giustiziato con gran crudeltà: lo fecero sedere su un trono di ferro ardente, sul suo capo posero una corona di ferro e nelle mani uno scettro incandescente precedentemente surriscaldati dalle fiamme. Per terminare la vendetta dei nobili migliaia di contadini vennero uccisi. I prigionieri furono anche costretti a mangiare la carne di Dózsa e chi s’oppose fu crudelmente ucciso. Si salvarono soltanto quelli che obbedirono a quest’ordine atroce. 

Così morì e divenne martire-idolo György Dózsa, il re dei contadini, ed oltre a ciò i nobili si vendicarono con crudeltà inaudita sui capi e sui soldati contadini arrestati e per evitare che in futuro si ripetesse un avvenimento simile, codificarono un sistema ancora più duro di servitù della gleba...

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1 Esztergom: ancora oggi sede del cardinale primate d’Ungheria

3 Tamás Bakócz: Tommaso Bakócz

2 György Dózsa: Giorgio Dózsa, capo della guerra dei contadini del 1514 in Ungheria

4 Nándorfehérvár: l’attuale Belgrado in Serbia, dove  nel 1456 i Magiari vinsero contro i Turchi, evitando che invadessero tutta l’Europa occidentale; in ricordo di questa grande vittoria, per ordine del papa d’allora ancora oggi a mezzogiorno si suonano le campane delle chiese

5  Temesvár : l’attuale Timisoara in Romania


L’ASSEDIO DI EGER

Avete sentito parlare di Solimano II il Magnifico? Sapete chi era? Nel Cinquecento era il gran sultano turco dell’enorme Impero Ottomano, che minacciò tutta l’Europa. Solimano era un uomo alto, abbronzato, col naso aquilino e la bocca dal taglio duro.

«Il mondo è diviso in due parti - insegna il Corano - il dominio dell’Islam e il dominio della guerra...» Di ciò il gran Solimano era assolutamente convinto. Decise dunque di attaccare il punto più vulnerabile dell’Europa centrale e d’invadere l’Ungheria. Qui, nel 1552, durante i centocinquant’anni della dominazione turca, nella cittadina di Eger si svolse l’episodio più celebre della difesa ungherese: centocinquantamila turchi assediarono la fortezza nella quale si era asserragliato il mitico e prode castellano István Dobó ed il capitano István Mekcsey, con duemila uomini e trecento cannoni.

Quando il pascià Ali, l’orgoglioso condottiero dei turchi, vide la fortezza di Eger, disse: «Questa debole baracca non fermerà il mio esercito.»  Durante i combattimenti egli invece si rese conto che sottovalutava i difensori magiari. Provò perciò ad utilizzare anche altri mezzi per sconfiggerli: volle conquistare il castello con lettere piene di belle promesse, con gli inganni, con la furbizia. Il capitano István Dobó conosceva bene questa tattica, perciò fece giurare ai suoi soldati che avrebbero difeso la fortezza fino al loro ultimo respiro e non avrebbero ascoltato mai le promesse dei turchi. Dichiarò anche che, se qualcuno avesse pronunciato la parola «arrendersi» sarebbe stato giustiziato immediatamente. Inoltre fece sapere ai turchi che lui era deciso a tutto pur di difendere il castello; perciò fece mettere una bara nera tra due picche sul suo muro. Nonostante ciò, il pascià Ali cercò in ogni modo di corrompere oltre i soldati magiari anche gli ufficiali. Egli ebbe quasi successo: István Hegedüs con un suo complice si preparò a dichiarare la resa del forte. Per fortuna il progetto del tradimento fu scoperto in tempo! Il castellano Dobó fu severo: il sottotenente Hegedüs venne giustiziato nella piazza del mercato del castello e per punizione al suo compare tagliarono un orecchio.

Per risposta i turchi attaccarono il forte con gran impeto da più direzioni, bombardandolo continuamente: massacrarono tutti quelli che poterono. Per sfortuna degli ungheresi l’1 ottobre successe anche un grave incidente: nella chiesa principale della cittadina  esplose la polvere pirica, Pál Nagy con otto soldati rimase ucciso e due mulini crollarono all’istante.

Verso la metà d’ottobre si arrivò alla battaglia decisiva. All’alba del giorno 13, un giovedì, c’era un gran silenzio. Il pesante combattimento, sotto la pioggia insistente che rendeva la situazione ancora più difficile, s'era fortunatamente fermato per un attimo. I cannoni erano finalmente muti. Nei dintorni del castello giacevano migliaia di cadaveri di turchi. Nel silenzio del dopobattaglia i rantoli d’agonia e i lamenti dei feriti nemici si sentivano raddoppiati: «Ej vá! Jetisin!» Oppure sussurravano: «Meded Allah!» Anche i magiari avevano tanti feriti e morti. I bastioni e le  mura erano coperti di sangue. I difensori erano stanchi, sfiniti.

Pian piano il cielo cominciava a schiarirsi, il sole appena alzatosi già trovava i soldati di nuovo sulle mura della fortezza. Essi non riposavano molto, dovevano fare pulizia sugli spalti che erano ricoperti di corpi senza vita. Dovevano sbrigarsi perché tra breve l’attacco del nemico sarebbe ripreso. Dalla cucina portarono fuori le pignatte e i paioli pieni d’acqua bollente. I soldati portarono sui bastioni anche tutta la pece che si trovava nella fortezza. Erano già le dieci di mattina quando si sentì il suono della tromba. Tutti quanti, uomini e donne, si riunirono per essere pronti: sapevano che l’inferno sarebbe iniziato di nuovo. Dopo poco detonazioni, boati infernali, rombi di cannoni, clangore di trombe, urla di «Jézus» ed «Allah» si mescolarono nell’aria. La battaglia era appena iniziata e già giacevano tanti cadaveri. I turchi s'arrampicarono sulle mura. Sui bastioni le donne insieme con gli uomini combatterono sfidando la sorte: portarono e gettarono la pece ardente e l’acqua e piombo bollenti, sassi pesanti contro il nemico. Le urla di «Allah, Allah! Vinceremo! Abbiamo quasi vinto!...»  incoraggiavano i soldati turchi. L’assedio divenne sempre più feroce. «Resistete ancora almeno per un’ora!» - urlò il capitano Dobó e quest’ordine si diffuse in tutto il campo magiaro. Ad un certo punto il bey Veli col suo cavallo si stava avvicinando al forte tenendo in mano la bandiera di velluto di color rosso. I soldati turchi, accorgendosi della bandiera di vittoria, urlarono in preda ad una grande ebbrezza: «Allah ci aiuta! Il momento della vittoria è arrivato!...» La lotta divenne corpo a corpo. I turchi fecero irruzione  lanciando urla di vittoria dopo aver raggiunto la sommità degli spalti. Donne, uomini, senza distinzione di ruoli e gradi, combatterono come leoni feroci per difendere la fortezza. Poi successe una cosa incredibile: il bey Veli cadde dal suo cavallo e la sua bandiera di vittoria finì nelle mani di un soldato magiaro! Alla Porta Antica del castello anche il capitano Mekcsey riuscì a respingere l’attacco dei giannizzeri. Ad un tratto i soldati turchi iniziarono a ritirarsi urlando e cercarono di ripararsi dietro le trincee. Gli aga li costrinsero colle spade a ritornare sulle mura del castello, ma i giannizzeri s'opposero gridando: «Contro Allah non combattiamo perché Allah è con i magiari!»

Dopo tre giorni di combattimenti disperati Eger si svegliò in un gran silenzio... I tendoni bianchi del nemico erano abbandonati. Qualcuno tra i difensori fece un’osservazione: «Se ne sono andati...» - e questa frase, timidamente pronunciata, si diffuse come un eco, in tutta la fortezza: «Se ne sono andati!... Se ne sono andati!...»

Eger era libera! Dopo un mese di combattimento l’assedio fu tolto. Gli eroici difensori, 'le stelle' di Eger, divennero leggendari perché posero fine alla fama d’invincibilità dell’esercito turco e riuscirono a fermare almeno per diversi decenni l’espansione dell’Impero Ottomano...


L’UOMO NERO

Quando i turchi assediarono la bella Grande Pianura Magiara  si sentirono soltanto pianti, sospiri e lamenti. La disperazione fu enorme, i danni pure, la crudeltà dei turchi insopportabile. Così la gente spesso diceva:

«Farei volentieri un patto anche con il diavolo purché ci liberi dai turchi!»

Evocarono spesso il diavolo, ma egli non si presentò. Arrivò invece un uomo nero che annunciò che in nome di Dio avrebbe liberato il popolo magiaro dall’oppressione turca.

Chi era quest’uomo nero? Apparteneva ad una famiglia romena dalla contea di Szilágy e lo denominarono l’uomo nero perché egli aveva gli occhi ed i capelli colore del carbone.

L’uomo nero era tremendamente forte: riusciva a rompere un ferro di cavallo, le catene di ferro in un attimo con le mani nude, o le pesanti ruote dei mulini sul suo petto.

Egli era un semplice contadino che si occupava del suo lavoro sulla terra, ma quando sentì le notizie del possibile ritiro dei turchi nell’anno 1569, non pensò a nient’altro che a questo. Sempre fantasticò che sarebbe stato lui che avrebbe cacciato i turchi dalla bella Grande Pianura Magiara!

Anche durante le feste di Natale fece uno splendido sogno: incontrò Dio che gli disse:

«Ti affido un grande compito: caccia via i turchi dall’Ungheria!»

L’uomo nero nel sogno rispose:

«Ma io sono uno sciocco contadino, Signore, come potrei eseguire quest’enorme compito?!»

«Proprio per questo,» rispose il Signore «così potrò dimostrare in modo più visibile la mia onnipotente capacità. Perciò ti affido questo compito, anche se in questo lavoro non hai esperienza, perché ti difenderò da tutti i pericoli.»

Dopo questo sogno l’uomo nero si fece chiamare György Karácsony e credette fortemente che il sogno di Natale lo avesse fatto diventare un profeta di Dio. Annunciò ovunque:

«Udite, uomini, udite! Vi chiama il profeta del Signore! Venite tutti nel mio campo, perché nella visione fatta in sogno mi è stato annunciato: 'sarai tu che libererai l’Ungheria dal pericolo turco!'»

Dopo di ciò György Karácsony fece alzare una bandiera sul prato della periferia di Debrecen ed una marea di uomini si riunì attorno ad essa. Il condottiero tutti i giorni faceva la sua predica, facendo entusiasmare il popolo. Promise di cacciar via i turchi senza sangue, con l’aiuto di Dio e da quel momento tutti sarebbero diventati liberi ed avrebbero cancellato l’odiato sistema della servitù della gleba. I suoi discorsi piacquero ai poveri!

Quando l’esercito divenne entusiasta, György Karácsony ufficialmente fece diventare questi uomini i suoi soldati: li fece giurare di combattere eroicamente per  Dio e per la patria e che avrebbero sempre obbedito a lui. Ciascun soldato venne sollevato tre volte per i capelli mentre egli mormorava delle parole incomprensibili, poi diede loro un colpo sul collo ed infine baciò la loro fronte. Da quel momento i suoi soldati vennero chiamati «figli miei» ed il condottiero invece si fece chiamare «padre mio». I soldati tra loro si chiamavano «fratello».

La vita del campo militare di György Karácsony era molto dura: la mattina e la sera i suoni dei tamburi annunciavano il momento della preghiera: i soldati inginocchiati pregavano, poi György Karácsony li benediceva. In ogni momento erano impegnati: si esercitavano con le armi, ascoltavano le prediche del loro condottiero, erano anche previsti momenti per le premiazioni o per le punizioni. Karácsony era molto severo: nel suo campo nessuno poteva parlare male o bestemmiare, era proibito qualsiasi gioco o scherzo militare.

Aveva poco da offrire da mangiare ai suoi soldati, perciò permise loro di rapinare i viaggiatori o le abitazioni pensando che dopo la cacciata dei turchi avrebbe restituito tutto ai cittadini danneggiati. L’esercitò aumentò notevolmente ed arrivò a diecimila uomini, tra cui vi erano trecento soldati di guardia, chiamati da Karácsony: «le anime divine». La maggior parte di questo esercito partì per Szolnok per riconquistare il forte dai turchi. Strada facendo i suoi soldati cominciarono a lamentarsi a causa dello scarso cibo e delle poche bevande.  György Karácsony cercò di tranquillizzarli:

«Figli miei, sopportate ancora un po’, poi avrete la redenzione! Nel forte di Szolnok troverete tutto ciò di cui avete bisogno. La vittoria è sicura: Dio ucciderà i turchi con il fuoco vivo davanti ai nostri occhi. Si devono soltanto far suonare i tamburi e le mura del castello crolleranno.»

Al popolo superstizioso piacque questa bella promessa: non avrebbero dovuto neanche combattere, Dio avrebbe regalato loro il castello e la città.

Quando  quest’esercito arrivò sotto le mura della città di Szolnok, i turchi subito lanciarono nell’aria dei proiettili infuocati contro di essi.

«Il fuoco celeste! Il fuoco celeste! Eccolo, di esso il padre nostro ci ha parlato!» gridarono i soldati.

In quel momento per ordine di György Karácsony cominciarono a suonare i tamburi, ma purtroppo le mura non caddero, anzi i turchi spararono contro di esse con i cannoni. Fu una battaglia sanguinosissima. Si salvarono soltanto Karácsony ed appena trenta soldati della guardia.

Con la parte dell’esercito rimasto sotto la città di Debrecen cercò di rimediare a questo grave errore. Ordinò al giudice della città di inviare al suo esercito alimenti, vestiti e coperte. Ma il giudice non obbedì e sperò di essere salvato dall’esercito del nobile György Báthory se l’esercito dei contadini avesse avuto accanto. A seguito di quest’atteggiamento del giudice György Karácsony, in compagnia di trentasei soldati della guardia, irruppe nella città, lo catturò ed ordinò di giustiziarlo. Per risposta, inaspettatamente, i cittadini si armarono e liberarono il loro giudice. György Karácsony venne catturato e giustiziato. Il vice di Karácsony, László Szücs, quando seppe la notizia, per vendetta attaccò la città con i soldati rimanenti. Egli  si trovò di fronte l’esercito di György Báthory, che lo batté.

Così finì la guerra sanguinosa di György Karácsony: tanti servi della gleba magiari e romeni morirono come martiri, perché a causa della disperazione e dell’ignoranza caddero nella sua trappola.


© Progetto grafico, copertina, illustrazioni: Melinda Tamás-Tarr Bonani

 Lettore linguistico: Marco Pennone

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

II EDIZIONE

Printed in Italy

Finito di stampare nel mese di  

PUBBLICAZIONE FUORI COMMERCIO

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